la Repubblica, 19 giugno 2021
Ucciso da un Tir il sindacalista del Si Cobas Adil Belakhdim
U na settimana fa gli scontri a Tavazzano, vicino a Lodi, con un lavoratore finito in ospedale in codice rosso.
Ieri mattina il morto, il sindacalista del Si Cobas Adil Belakhdim, ucciso da un Tir che voleva superare un picchetto di manifestanti davanti al deposito Lidl di Biandrate, nel Novarese. C’è voluto poco, pochissimo, perché in questa estate del virus che arretra e della povertà che avanza, i peggiori presagi si trasformassero in realtà. E non è un caso che il prezzo del lavoro diventi la vita proprio là dove quel lavoro è meno qualificato, meno garantito, meno pagato e spesso anche meno “italiano”, con una fortissima presenza di immigrati che più difficilmente riescono ad affermare i propri diritti. Ma quei diritti sono in ogni caso difficili – impossibili, nella circostanza peggiore da difendere per molti. Così è stato, del resto, anche per l’italianissima ventiduenne Luana D’Orazio, assunta come apprendista in una fabbrichetta tessile di Prato e poi mandata a morire da sola il 3 maggio scorso negli ingranaggi di un orditoio dopo che – sostengono i periti della Procura – da quel macchinario erano stati levati gli apparati protettivi.
Di Adil Belakhdim, del suo Marocco e della sua lotta per i lavoratori della logistica, ieri abbiamo già saputo molto.
Dell’autotrasportatore campano che lo ha ucciso conosciamo ancora poco. Quel che possiamo dire è che lo scenario in cui si è consumata la tragedia che è costata la vita al primo è uno scenario comune. È il mondo della produzione e del trasporto delle merci “hard discount”, l’alimentare o gli oggetti per la casa a prezzi bassissimi, che in questi mesi hanno rappresentato la scelta necessaria per tanti espulsi dal mondo del lavoro, ma che possono offrire quei prezzi anche perché applicano un “hard discount” a tutto quello che sta prima dello scaffale del supermercato e che i consumatori non vedono: le materie prime, il costo dei trasporti, gli stipendi degli addetti. E “hard discount”, stretta fra la concorrenza dei prezzi dei rivali in Asia e quella dei cinesi di Prato, campioni di autosfruttamento e di elusione delle regole, in fondo era pure la fabbrica tessile dove è stata fatta morire Luana D’Orazio.
Al netto dei diritti violati in nome della produttività e del profitto o dei comportamenti che implicano scientemente la possibilità di commettere un omicidio – sarà la magistratura a pronunciarsi sui singoli casi – ciò che è accaduto ieri a Biandrate non è certo un episodio isolato. Da settimane e mesi si combatte – senza che finora ci fosse scappato il morto – una guerra tra poveri per il lavoro in quelli che ci appaiono i margini del sistema produttivo e che invece stanno molto più al centro, molto più vicini agli scaffali dei supermercati e ai nostri consumi, di quanto pensiamo e fanno parte di un tessuto comune della nostra società.
Anche ieri Mario Draghi – a Barcellona per un incontro con il suo omologo spagnolo – ha parlato di «coesione sociale», della necessità che i soldi e i progetti del Recovery Fund servano anche a ricementare quello che prima la crisi economica di oltre un decennio e poi la pandemia hanno contribuito a disgregare, aumentando le differenze di reddito e consegnando – stime Istat – 5,6 milioni di persone a un livello di consumi che sta sotto l’essenziale, sotto la soglia di povertà assoluta.
Quella coesione sociale oggi è ad alto rischio. La fine del blocco dei licenziamenti minaccia, come è ovvio, di acuire le tensioni, di innescare la rabbia di chi si troverà fuori dal sistema produttivo – che siano 70 mila, come calcola l’Ufficio parlamentare di bilancio, o il triplo come prevedeva a dicembre la Banca d’Italia, non è il problema principale – e di mettere subito un’ipoteca pesante su quello che si spera sia un periodo di ripresa dopo una caduta del Pil mai vista nel Dopoguerra.
Congelare i licenziamenti sine die non è possibile. Forse ci potrà essere qualche mediazione ulteriore tra la decisione del governo che darà il via libera alle prime uscite da luglio e le richieste dei sindacati che chiedono una proroga complessiva del blocco fino a settembre, ma il ritorno alla normalità dovrà passare anche dalla possibilità per le imprese di affrontare il tema del lavoro senza i vincoli d’emergenza finora imposti.
Quel che è sicuro, però, è che il salto verso la normalità che ci prepariamo a fare sul fronte della pandemia e della crisi che ne è derivata non può essere un salto nel vuoto per i lavoratori meno garantiti. In sede internazionale gli appelli alla prudenza nel levare i sostegni all’economia risuonano dappertutto. Giovedì ne ha parlato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco; ieri lo stesso Draghi ha avvisato i “falchi” dell’Unione europea che le politiche di bilancio non possono tornare ad essere restrittive. E il momento che le buone intenzioni enunciate si trasformino in azioni, a partire dalle politiche attive per chi perde il lavoro: un sistema che prevede la possibilità di licenziare deve anche mettere gli espulsi dal mondo del lavoro in condizioni di tornarvi con nuove competenze e opportunità.