Tuttolibri, 19 giugno 2021
Le malattie in Italia e la riforma sanitaria nel 1861
L’Italia del Risorgimento fu anche l’Italia del colera. Mentre i patrioti si battevano contro gli Austriaci, a Venezia «il morbo infuriava, il pane mancava» così da rendere inevitabile «lo sventolio, sul ponte, della bandiera bianca per chiedere la resa». L’epidemia del 1849 ebbe proprio nella laguna il suo epicentro. Quella che l’aveva preceduta, nel 1835, si era diffusa a partire dal basso Piemonte. Altre ce ne furono, sempre con un impatto devastante: nel 1854-1855, (quando aveva colpito anche in Crimea, sede del conflitto armato dove era impegnato un contingente sardo-piemontese, che contò 30 caduti in combattimento e 1.200 morti proprio di colera), e nel 1865-1866. Fino al 1882, quando la patogenesi microbica del male fu scoperta grazie al microscopio di Robert Koch. Prima, il «morbo che guasta il sangue» era curato con salassi che si rivelavano più nocivi che utili, mentre l’unico rimedio che si dimostrava efficace era la continua idratazione dei pazienti, la sola cura in grado di scalfire un tasso di mortalità che- proprio grazie ai salassi- continuava a rimanere altissimo.
Il colera attecchiva ancora più facilmente grazie alle disastrose condizioni igieniche che segnavano l’Italia. La «mal’aria» in città e la malaria nelle campagne riassumevano questa realtà affollata di ambienti malsani, paludi putride, terre da bonificare, con una miseria endemica in cui allignavano le malattie proprie dei poveri, a partire dalla pellagra.
Quando, dopo il 1861, l’unità d’Italia divenne un fatto compiuto, non si trattava solo di «fare gli italiani», ma anche di «curare gli italiani», con una sanità pubblica che riproduceva fedelmente le piaghe di un paese affollato di disuguaglianze, con oceani di povertà e isole di benessere, enormi differenze regionali da colmare che riguardavano anche le più diffuse pratiche mediche, come i famigerati salassi, ampiamente accettati al Nord, guardati con sospetto a Napoli e nel Mezzogiorno.
E i «padri della patria» diventarono allora i medici della patria. A due di essi, Giovanni Lanza e Agostino Bertani, è ora dedicato l’ultimo libro (Risorgimento a due voci, ovvero il medico politico), di un grande storico della medicina, Giorgio Cosmacini che con grande efficacia racconta, per entrambi, i due versanti delle loro biografie, quello di una professione medica interpretata con grande consapevolezza e quello di una carriera politica che li portò ad assumere cariche di assoluto rilievo nell’Italia postrisorgimentale.
Lanza e Bertani militarono in schieramenti politici diversi, dividendosi anche i «padri della patria», Cavour e Vittorio Emanuele II per Lanza, Garibaldi e Mazzini per Bertani. Di orientamento moderato e irriducibilmente anticlericale il primo, più volte ministro e capo del governo che il 20 settembre 1870 - dopo le cannonate e i bersaglieri che irruppero in città dalla breccia di Porta Pia- fece di Roma la capitale dell’Italia unita; garibaldino, repubblicano, radicale, il secondo che, su suggerimento di Cattaneo, un altro dei suoi maestri, andò a sedersi sugli scranni dell’estrema sinistra, in un’aula parlamentare da lui vissuta come un’arena in cui continuare le sue battaglie politiche. Uomini provenienti da ambienti sociali diversi che condividevano però la competenza e l’autorevolezza necessarie per mettere mano alla fatica improba di avviare un efficiente sistema sanitario nazionale. Non erano in ballo solo le disastrate condizioni igieniche. Si trattava -allora, come oggi- di conciliare le ragioni dell’economia con quelle della tutela della salute, contenere entro «limiti ragionevoli le colture insalubri», come le risaie, - che Lanza conosceva in maniera diretta grazie anche al suo ruolo di imprenditore agricolo - «studiandosi» come egli stesso scriveva, «di non offendere le industrie agricole, anima e forza del nostro paese».
Per Bertani, poi, il suo impegno per garantire il controllo igienico degli ambienti di lavoro (filande, mulini, botteghe, fabbriche, officine, solfatare, miniere) era sfociato in un più vasto progetto di legislazione sanitaria «tutelatrice dell’operaio». Lanza oltre che medico era un uomo colto, poliglotta, liberista moderato; Bertani, era un chirurgo affermato, aveva combattuto sulle barricate, seguendo Garibaldi nella prodigiosa avventura della Repubblica romana del 1849 e in mille altre imprese, dai «Mille» a Mentana. Nonostante queste diversità, c’era una posizione che li accomunava: la questione sanitaria andava affrontata a partire dall’igiene pubblica e l’igiene - secondo Bertani - non andava «raccomandata ma comandata», («i fatti non consentono di affidarci all’iniziativa privata, non sempre provvida»).
I loro sforzi non furono vani. Il 22 dicembre 1888, il governo di un altro ex garibaldino, Francesco Crispi, varò la «legge di riforma sanitaria» che realizzava l’unità d’Italia nella concretezza di un’organizzazione medica pubblica, improntata ai suggerimenti di Lanza e Bertani. Erano morti tutti e due, uno il 9 marzo 1882, l’altro il 30 aprile 1886. Restava il loro esempio e il lascito di una classe dirigente legittimata dalla competenza, dall’autorevolezza e, soprattutto, da una militanza politica vissuta nei tempi «del ferro e del fuoco» delle battaglie risorgimentali.