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 2021  giugno 19 Sabato calendario

Lo sport e l’antropologia. Un saggio di Bruno Barba

Riprendendo le parole di Marcel Mauss, lo sport è un «fatto sociale totale», cioè uno di quegli eventi in grado di influenzare e determinare un insieme di fenomeni, coinvolgendo la gran parte dei meccanismi di funzionamento della comunità di riferimento. Il fatto sociale totale permetterebbe così di interpretare «pezzi» apparentemente lontani e diversi della stessa società. È questo che sostiene Bruno Barba, che ne Il corpo, il rito, il mito affronta da una prospettiva antropologica il tema dello sport.
Fatto sociale totale perché lo sport diventa una sorta di lente attraverso cui guardare, per esempio, come si esprimano certi caratteri nazionali, dal calcio bailado dei brasiliani al rugby dei maori neozelandesi fino al cricket indiano. Un veicolo identitario che spesso regge nel tempo, nonostante lo sport oggi sia sempre più globalizzato e il legame tra gli sportivi e la loro terra sempre più labile. È proprio quell’orgoglio nazionale che fa cantare a Paolo Conte: «i francesi che s’incazzano, che le balle ancor girano» per le batoste prese da Bartali.
Sport è poi un termine che comprende pratiche molto diverse tra di loro, legate solo, come direbbe Wittgenstein, da una certa «somiglianza di famiglia». Per esempio, ci sono gli sport veri e propri e i giochi. Nei primi è la forza fisica che prevale e sono caratterizzati anche da una certa oggettività nei risultati; i giochi sono l’alea, dove il fisico conta, ma solo se accoppiato a una certa creatività. L’essenza del calcio sta nel fatto che è innaturale: i piedi sono fatti per camminare, correre, non per governare un pallone, così come il rugby sta tutto nell’imprevedibilità del rimbalzo di una palla ovale. In una corsa, a piedi o in bici (ma anche in auto o in moto) vince chi impiega meno tempo, è matematico, così come vince chi salta più in alto. Il calcio, invece, ha detto Sócrates, grande calciatore e grandissimo intellettuale, «si concede il lusso di permettere che vinca il peggiore. Non c’è niente di più marxista o di più gramsciano del calcio».
Si ha un bel dire che lo sport non c’entra con la politica, anzi, sono molti i casi in cui l’intreccio è stato quanto mai evidente: pensiamo ai vari boicottaggi olimpici in tempo di guerra fredda, ai pugni guantati di Smith e Carlos a sfidare il razzismo, alla politica del pingpong che segnò il disgelo tra USA e Cina, per non parlare delle Olimpiadi del 1936 che celebrarono la Germania hitleriana, della nazionale di rugby sudafricana usata da Mandela per combattere l’apartheid, fino al gesto delle manette del maratoneta etiope Feyisa Lilesa a Rio de Janeiro per denunciare l’oppressione del suo popolo. Lo sport ha spesso rappresentato la continuazione della guerra con altri mezzi.
Che dire poi del decoubertiniano «l’importante è partecipare»? La realtà è che, fin dai tempi dell’antica Grecia, tutti vogliono vincere e proprio gli atleti ellenici rischiavano di prenderle di santa ragione, se tornavano a casa sconfitti. Dalla Grecia a oggi, lo sport ha creato una sua mitologia: una celebre statua è dedicata a un discobolo, gli aurighi più bravi erano idolatrati nell’antica Roma, ogni epoca ha costruito dei miti sportivi. Qui l’autore ripesca un classico dell’antropologia, quel Modelli di cultura di Ruth Benedict, per proporre una divisione tra due modelli di atleti: uno è apollineo, formale, razionale, posato, dall’altro lato troviamo lo sportivo dionisiaco, impulsivo, individualista, emotivo, inquieto, insomma, il tipico genio e sregolatezza. Per fare alcuni esempi: Borg / McEnroe, Ronaldo (Cristiano) / Maradona, Hamilton / Verstappen.
Il libro sembra volere confermare come l’antropologia sia un sapere di frontiera, infatti, nel suo excursus Barba zigzaga tra sociologia, geografia, psicologia, politica, economia, musica e letteratura con dovizia di citazioni. Interessante vedere quanti grandi scrittori abbiano utilizzato lo sport nei loro racconti e romanzi: da Saba a Soriano, da Nick Hornby ad Arpino senza dimenticare la passione per il pugilato di Hemingway e Norman Mailer e Santiago, il vecchio pescatore hemingwayano, solo in mezzo al mare, legato a un enorme pesce spada, desidera sapere i risultati del baseball. Può stupirci ancora di più che la frase: «Noi siamo argentini, non possiamo stare senza giocare a calcio» non sia di Maradona e neppure di Messi, ma di Ernesto Che Guevara.
Lo sport, mettendo tutti i protagonisti nelle stesse condizioni, sottoponendoli alle stesse regole, potrebbe apparire come un’ottima palestra contro il razzismo, ma non sempre è così a volte si arriva a un razzismo «positivo»: gli africani e i loro discendenti sono superiori nello sport, frase che spesso sottintende «ma i bianchi sono più intelligenti». È importante allora descrivere con dovizia di particolari, come fa il libro, le ragioni scientifiche per cui non si possono attribuire certe caratteristiche a una presunta razza: non tutti gli afroamericani sono forti nello sport, così come non tutti sanno suonare il blues. Come sostiene saggiamente Lilian Thuram, campione del mondo nel 1998 con la nazionale francese (peraltro definita Black, blanc, beur) e oggi scrittore e protagonista nella sua Fondation Lilian Thuram, education contre le racisme: «Neri non si nasce, lo si diventa, e avviene quando qualcuno ti sbatte in faccia uno stereotipo».