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 2021  giugno 19 Sabato calendario

Le lettere di Beckett

«Vado a pranzo, poi me ne andrò a passeggiare sui lunghi verdi pendii da dove, bambino, con il tempo terso vedevo le montagne del Galles. Al calare della notte mio padre, per farmi divertire, dava fuoco alla ginestra. Berrò qualche pinta nelle locande di montagna, non sono proprio delle locande, piuttosto dei pub con i bei nomi dei proprietari defunti, Fox, Lamb, Silke, e infine verrà la sera, e il mare che si illumina, il porto, la città, i promontori. Paesaggio romantico ma passeggiatore rinsecchito». Una lettera è un testo ibrido tra narrativa, saggistica e memoir, come è evidente in questa scritta da Beckett nel 1948 a Georges Duthuit, lo storico dell’arte con cui ebbe una intensa corrispondenza. In una lettera non c’è un tono come in un romanzo, ci sono però cadenze diverse a seconda dell’interlocutore. E c’è a volte un gigantesco non detto, perché ciò di cui si scrive è già noto al destinatario e per evocarlo basta una parola: è una condivisione profonda, a cui è sufficiente accennare poiché l’altro capisce al volo. Chi legge una lettera pubblicata in un libro non sempre capisce al volo. E qui sta la difficoltà maggiore per chi cura l’edizione italiana di un epistolario. Il non detto – l’implicito continuo che serpeggia tra le righe – è da conservare a ogni costo se non si vuole perdere la natura ibrida del testo. Ma spesso chi cura, o traduce, l’epistolario tende a esplicitare, a non essere altrettanto ellittico, e se leggendo la lettera in inglese si ha la sensazione di una grande spontaneità, il rischio in italiano è di approdare a una sorta di voce enciclopedica, con chiose che spiegano, nel testo, ciò che non appare perspicuo. Ma come in un romanzo due personaggi devono parlare l’uno all’altro e non al lettore, se chi scrive non vuole sembrare inutilmente didascalico, così nell’edizione italiana di un epistolario i due che si scrivono devono rivolgersi l’uno all’altro e non al lettore.
Nel lavoro di curatela la difficoltà maggiore sta in questo oscillare tra due poli: essere leale nei confronti del lettore originario della lettera (il destinatario) ed essere leale verso il lettore del volume che si sta curando. Questo sottile conflitto affiora nel gioco di parole o nella battuta magari salace – Beckett è spesso amabilmente sboccato –, e pure nella sintassi precaria di una lettera scritta in stato di ubriachezza o di forte tensione emotiva, in cui i nessi logici tra due frasi saltano, i lapsus irrompono tra le righe (a distanza di un anno dalla morte della madre Beckett sbaglia il mese in cui è mancata), la memoria gioca brutti scherzi. Certe volte il tema affrontato procura angoscia, vuoi perché genera emozione, vuoi perché è arduo confrontarcisi e forse non è ancora ben chiaro nella mente, sicché ne risente la sintassi di un intero periodo. Trovare la misura giusta nel trasferire tutto ciò in un’altra lingua può essere a volte faticoso.
Al centro del secondo volume dell’epistolario c’è Godot e c’è l’improvvisa e inattesa fama seguita alla messa in scena della pièce. E dunque al centro della scrittura di Beckett comincia a prendere forma quel processo di instancabile sottrazione che lo porterà sempre più vicino alla «divina afasia» evocata in Aspettando Godot. «Bisogna gridare, mormorare, esultare, follemente, fino a quando non si riesce a trovare l’indubbia lingua serena del no, senza aggiungere altro, o aggiungendo solo poco altro» scrive ancora a Duthuit nel 1948. L’imperativo della rinuncia, che informa sempre più l’opera, diventa tale anche nella stesura degli scritti privati, e lo diventa pure per chi ne cura l’edizione italiana: rinunciare alla parola in più, dire no all’accessorio, all’esplicitazione, alla soppressione dell’ellissi, al desiderio di chiarire ciò che nel testo chiaro non è. Lasciare a volte che un cono opaco d’ombra scenda sulla prosa e non ostinarsi a rendere tutto trasparente. Il lavoro di curatela è stato facilitato da eccellenti compagni di strada: Leonardo Marcello Pignataro, di cui ho rivisto l’esemplare traduzione; Simona Sollai, Daniele Filippi e Stefano Zicari della redazione Adelphi, che hanno riletto il testo con la consueta precisione.
Questo volume riunisce lettere composte nel periodo in cui Beckett crea alcune delle sue opere più famose, tutte in francese: Aspettando Godot, Finale di partita, Molloy, Malone muore e L’innominabile. Sebbene siano lettere che hanno attinenza solo con il lavoro, il criterio stabilito da Beckett per consentirne la pubblicazione, la personalità dell’uomo emerge nitida. Il coraggio, in primo luogo, quando durante la Resistenza, avendo un passaporto irlandese, a Parigi è libero di muoversi nella notte per consegnare soldi e documenti. O il candore nell’ammettere di non essere che «i resti di una voglia antica, quando ero piccolo, di diventare un cerchio perfetto, anche solo di piccolo raggio. Il che ti chiude per tutta la vita».
Ma colpisce pure il disagio, quasi un impedimento, nel tradursi in inglese – «lingua orribile, che so ancora troppo bene» – e l’impossibilità di parlare del proprio lavoro, la disarmante sincerità con cui dichiara al produttore radiofonico Michel Polac: «Non so chi è Godot. Non so nemmeno se esiste. E non so se lo pensano, o meno, i due che lo aspettano». Le incombenze pratiche sono demandate a Jérôme Lindon delle Éditions de minuit, sempre più manager e agente, oltre che editore. Ma quanta gioia in una lettera del 1956 all’amica Pamela Mitchell – espressa in un raro punto esclamativo – nell’apprendere dal suo editore americano che a Broadway si parla di un Godot dal cast stellare: «Immagina Buster Keaton nella parte di Vladimir e Marlon Brando in quella di Estragon!».
È una gioia malinconica ciò che spesso si prova leggendo queste lettere, come in un’altra a Duthuit – la corrispondenza tra i due è la spina dorsale del volume –, nella quale Beckett racconta della sera in cui in campagna si avvede di essere scortato da un nugolo di «mosche di maggio», e nella quale la distanza fra il destinatario della lettera e il lettore del volume si annulla: «Alla fine mi è parso di capire che andavano tutte verso la Marna, a farsi mangiare dai pesci dopo aver fatto l’amore sull’acqua».