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 2021  giugno 19 Sabato calendario

Intervista a William Tanner Vollmann

Da tempo William Tanner Vollmann conduce un’indagine approfondita sugli esseri umani e sul pianeta che ci ospita. Dagli anni Ottanta, attraverso migliaia di pagine di densità e sangue, ha scritto racconti, romanzi, saggi e reportage dagli angoli più disparati del pianeta. «Mastondotica» è l’aggettivo che più s’adatta alla sua opera. In Italia, da qualche anno minimum fax sta ripubblicando una fetta importante del suo catalogo. Adesso è la volta di uno dei suoi libri migliori, I racconti dell’arcobaleno, uscito per la prima volta nel 1989: un intreccio di fiction e reportage che ci porta per le strade di San Francisco incrociando dolori e speranze di prostitute o skinhead. Da qui sono partito per una transoceanica intervista telefonica; Vollmann non ha una connessione internet né un indirizzo e-mail.
Quali sono le sensazioni che provi ripensando ai "Racconti dell’arcobaleno?"
«Sai, prima di stamattina non li riprendevo tra le mani da tanto tempo. Lavoro molto duramente sui miei libri, e mi piace pensare che quelli pubblicati siano la migliore versione a cui potessi arrivare. Dopo che li ho visti, rivisti e infine conclusi, sento che non voglio più averci a che fare. Ma a distanza di anni mi capita di riprenderli, come ho fatto questa mattina, ed è come se mi piacessero di nuovo. In questo caso, mi viene da pensare che forse non sono più uno scrittore bravo come allora, perché la mia capacità di creare… ricorrendo a un’immaginazione molto visiva, diciamo, è cambiata. Adesso sono più interessato alla struttura narrativa».
L’effetto di queste storie è di portarci per le strade e di fianco alle persone che racconti. Che traccia hai seguito per questo libro, e qual è l’aspetto a cui hai lavorato di più per rendere queste storie universali?
«In quegli anni mi capitò di ragionare sul concetto di arcobaleno. Compresi che è uno spettro uniforme, con all’interno diverse sfumature di colore che finiscono l’una nell’altra. Allora mi sono detto: facciamo come con i colori, e proviamo a ricercare una varietà all’interno di qualcosa di uniforme. Il fatto di poterlo fare, o anche soltanto di provare a farlo, è stata una grande sfida per me: perché io credo fortemente che la realtà sia coerente, uniforme. E se può sembrare che non sia così, è perché la nostra mente cosciente, per aiutarci ad andare avanti nella vita, crea delle categorie ben definite. Per esempio, se attraversiamo una foresta, riconosciamo la differenza tra un sentiero e la boscaglia, e desideriamo rimanere sul sentiero; ma in realtà quel sentiero e quella boscaglia sono parte della stessa cosa. Sono tutte parti di questo immenso e complicato universo, che non possiamo sperare di comprendere fino in fondo. Quindi la mia idea con i Racconti dell’arcobaleno era: mettiamo insieme il reportage o una rilettura allegorica della Bibbia, differenziando al massimo per arrivare a una sensazione di unità e coerenza».
Sei interessato alla letteratura contemporanea, come lettore e critico? Che direzione sta prendendo, anche alla luce della sempre maggiore preponderanza dei nuovi media… dai quali mi sembra tu conservi una netta distanza?
«Faccio del mio meglio. A volte mi preoccupo di essere diventato una sorta di snob. Poco tempo fa stavo leggendo l’autobiografia di Edith Wharton, nella quale lei, che scriveva durante gli anni Venti, si lamentava della decadenza della lingua inglese. Diceva: una delle cose più brutte che si possano dire è: a dirt road, quando invece si dovrebbe dire: earthen road. E io pensavo "suvvia Edith, non essere sciocca, supera questa cosa". Ma più o meno allo stesso modo, anche io quando leggo il New York Times, ritrovo tantissimi casi in cui a mio modo di vedere l’inglese viene usato nella maniera sbagliata, e la cosa sembra non importare a nessuno. Lo fanno i politici, lo fanno i giornalisti: ad esempio, di dire reticent invece di reluctant. Oppure: il verbo to lag behind (rimanere indietro a qualcuno), adesso viene usato soltanto come to lag somebody. Queste sono tutte modalità in cui la lingua sta cambiando. E so che la lingua deve cambiare, ma penso anche a come man mano ci siano sempre più persone che scrivono, e sempre meno che leggono, e il compito della scrittura di creare frasi belle e curate non viene più perseguito così come dovrebbe essere. E poi mi dico: ma certo che la pensi così, sei un uomo vecchio adesso, e i vecchi sono così, le cose erano così belle ai miei tempi… ma mi sforzo di pensare che devo rimanere umile. La vedo così, anche se non so se è una risposta soddisfacente.
Come accade spesso nella tua opera, anche in questo caso hai seguito le storie degli ultimi, delle persone che vivono ai margini della società. Cosa ti attrae di questo tipo di persone?
«Da bambino dovevo prendermi cura di mia sorella, più piccola. Ma ho fatto un pessimo lavoro, e lei è affogata. I miei genitori non mi hanno mai veramente perdonato, e nemmeno io ho mai perdonato me stesso. Continuavo a pensare a questo terribile errore. Per questa ragione ho iniziato a desiderare di incontrare altre persone che hanno fatto errori, pensando che queste persone fossero miei fratelli e sorelle. Tre o quattro anni fa ero in ospedale per via di un’appendicite. Nel mio reparto c’era anche un uomo ricoverato per un cancro, con una lunga storia di dipendenza dai narcotici. Nonostante avesse dolori cronici, vendeva i medicinali per comprare droghe più forti. Era ormai in fin di vita, ma aveva sviluppato una tale tolleranza agli antidolorifici che non ne riceveva più alcun beneficio. Spesso urlava per il dolore. La moglie veniva a trovarlo ogni tanto: era lei che lo aiutava a procurarsi la droga. Gli diceva: "per favore, guarisci, d’ora in poi sarò una brava moglie, non litigheremo più"... in pochi giorni io e quest’uomo legammo molto, e ho pensato: siamo fratelli. Ha iniziato troppo tardi a fare i conti con i suoi errori, e sua moglie, anche lei sta affrontando troppo tardi i suoi errori, ma gli sta mostrando amore e impegno, e ho pensato: l’umanità è questa. Penso di aver amato quest’uomo, e che anche lui mi abbia amato a sua volta».
Dev’esserti capitato di tornare al Tenderloin, il quartiere malfamato di San Francisco di cui racconti nel libro. Quanto è cambiato?
«Be’, fino a poco tempo fa, fino a prima della pandemia, in diverse zone era diventato molto gentrificato. Questa è allo stesso tempo una cosa cattiva e una cosa buona. È stato bello vedere i figli della prima generazione di immigrati, molti di origine cambogiana e vietnamita, che potevano andare in giro anche di notte senza timore. È stato abbastanza triste, invece, entrare in alcuni dei vecchi bar, e trovarli presi d’assalto dai figli della cultura dot-com, che andavano lì a mescolarsi a persone più umili, impegnate ad alcolizzarsi fino alla morte, sempre più sole mentre erano circondate da giovinezza e amore. Ma la pandemia ha riportato nelle strade la miseria e alcune delle vecchie paure, e ha dato anche una nuova ragione di vita a questa gente. Improvvisamente sembra che ci siano più persone come loro, sembra che si siano assembrate (ridacchia, ndr)».
A proposito di pandemia, come hai trascorso questi ultimi mesi?
«Il mio studio è a circa cinque chilometri da casa mia, qui a Sacramento. Normalmente è una passeggiata poco piacevole, per via dello smog e del traffico. Quest’anno invece è stato più bello camminare da un posto all’altro. C’erano molti più uccelli e insetti. La tua com’è andata?».
Me la sono cavata anche io, grazie. Mi chiedevo: è qualcosa a cui avevi già pensato? Voglio dire, hai mai pensato che potesse verificarsi un fenomeno così sconvolgente?
«Sì, mi era capitato. C’è un libro molto interessante, un romanzo del 1949 che si chiama Earth Abides: racconta di un piccolo gruppo di persone che sopravvive a una pandemia che ha ucciso la quasi totalità della popolazione mondiale, e che gradualmente regrediscono a una specie di condizione tribale. Il protagonista del libro è un geologo che cerca di preservare la cultura del suo tempo, ma la maggior parte di quella conoscenza perde rapidamente valore. Tutto quello che può fare è insegnare a costruire archi e frecce. Così, in qualche modo non è assurdo pensare che ci sia stata una nuova pandemia, e credo che questa volta gli esseri umani siano stati molto fortunati, se pensiamo alla percentuale assoluta di vittime. Pensiamo a quello che è successo al diavolo della Tasmania, sai, questi curiosi animaletti neri che sono stati colpiti da una malattia che ne sta uccidendo la maggior parte. Perché non dovrebbe accadere anche a noi?».
Già, è decisamente inquietante. Infine, volevo chiederti: come scrittore hai esplorato una miriade di generi. Dovessi indicarne qualcuno, quali sono i tratti continui nella tua opera?
«Ci stavo pensando proprio mentre rileggevo I racconti dell’arcobaleno. Le ombre della seconda guerra mondiale e dell’olocausto hanno lasciato un segno su di me. Alle elementari, il maestro ci mostrò un breve filmato sulla liberazione di Dachau. Ne fui così turbato che ne parlai a mio padre. Lui mi disse "Ascolta, Bill: la mia famiglia è in parte tedesca, e sono sicuro che abbiamo dei parenti che sono stati nazisti e che hanno fatto cose tremende". Non volevo avere niente a che fare con tutto questo, ma nel tempo ho sentito di doverci fare i conti, e così ho iniziato a riflettere su altri olocausti in altri luoghi. Odio pensare a queste cose, ma continuano a bussare alla mia porta e a dirmi: Bill, devi lasciarci entrare, abbiamo ancora qualcosa da dirti. E poi c’è un’altra cosa, più divertente, che riguarda cosa sia l’amore. Più invecchio e più voglio pensare all’amore; cerco di amare gli altri il più possibile. Ci sono delle persone senzatetto che invito spesso a restare nel mio cortile qui fuori. Poco tempo fa due di loro mi hanno detto "Hei Bill, perché non passi un po’ di tempo con noi, guardiamo il tramonto". Uno dei due ha gravi problemi psichici, aveva con sé una piccola quantità di marijuana davvero scadente e voleva regalarmela. Ho pensato: è tutto quello che ha, non voglio prendergliela. Ma poi mi sono detto: forse la cosa giusta da fare è ringraziarlo, accettarla e fumarla insieme. Dopo è tornato altre volte. L’altro uomo era un poeta. Mi ha detto: Bill, io non ho niente, ma lascia che ti legga una delle mie poesie. Lo ha fatto, ed è stato come se entrambi mi avessero donato tutto quello che avevano. Ho pensato molto a queste persone. Ho sentito amore da parte loro, e mi sono sentito così felice che una giornata brutta è diventata improvvisamente bella».