19 giugno 2021
In morte di Giampiero Boniperti
Mario Sconcerti, Corriere della Sera
Giampiero Boniperti si era un po’ perso nella nebbia del tempo. Era stato il miglior giocatore degli anni Cinquanta ma erano stati anni duri. La Nazionale giocava tre partite l’anno, c’era poca comunicazione, nessuna televisione. Le cose accadevano solo per chi era sul posto. Per questo Boniperti è stato quasi soltanto un eroe juventino, quindici anni da giocatore e poi due lunghe gestioni da presidente.
Ma ai suoi addendi manca il totale e quello dice che fu un grande centravanti. Era abbastanza alto per i tempi, 1.75, aveva un fisico compatto. Non spaventava i difensori, ma ne anticipava gli sbagli. Ha debuttato talmente giovane che quando si trovò contro la Triestina, Memo Trevisan, una pasta d’uomo ma burbero, gli gridò «cosa fai Puparìn nella mia area di rigore, torna nella tua». E il ragazzo Boniperti tornò nell’area della Juve. Dove trovò Parola che gli gridò ancora: «Va lassù falabrac (lazzarone)».
Boniperti aveva stacco, tecnica, forza, ma anche tempo nella paura. Una volta, contro il Padova di Nereo Rocco, in piena area vide arrivare un pallone dalla destra che sembrava buono. Il problema era che si era già mosso su di lui Scagnellato, difensore duro. Boniperti vide la montagna arrivargli addosso e reagì d’istinto, non si mosse. Nel frattempo alle sue spalle si era messo in movimento anche Azzini in rovesciata per anticiparlo. Il risultato fu che Azzini finì con un calcio sulla faccia di Scagnellato e con la palla tra i piedi di Boniperti che non si era mosso. E fu gol.
Sulle rovesciata c’è una storia bellissima che riguarda il suo grande amico Parola. Ricordate la figurina Panini diventata icona, quella in cui Parola vola compiendo un’incredibile rovesciata? Dopo anni di uso di quell’immagine, l’imprenditore che era dentro Boniperti aveva fatto i conti e non sopportava più l’insulto commerciale. Cercò l’editore Panini, lo trovò e gli chiese: «Si rende conto quanti soldi lei deve a Parola per lo sfruttamento di quella foto?». Panini ci pensò. Pochi mesi dopo alla famiglia Parola arrivò un assegno da cento milioni.
Nella Juve giocò centravanti fino al 1957, da qualche tempo segnava meno, la Juve aveva deciso di rinnovarsi. Arrivarono Charles e Sivori. Charles era il giocatore più alto che la Juve avesse mai avuto. Quando arrivò fu portato a casa del capitano Boniperti per una prima conoscenza. Boniperti rimase stupito dal fisico di Charles. Lo guardò per qualche minuto poi gli disse: «Quando salti ricordati sempre di allargare i gomiti. Li butti tutti a terra come birilli…».
Con la Juve Boniperti ha vinto 14 campionati. Fu poi un presidente pignolo, intrigante, a volte ingombrante perché si occupava di tutto, anche degli spazi di gioco. A Trapattoni chiese perché Di Livio e Marocchi giocavano così vicini: non era meglio che ognuno tenesse il proprio spazio? Il Trap disse: «Presidente, stanno vicini perché così dal centro non passa nessuno, al massimo vanno sulla fascia e lì li prendiamo dieci metri dopo». Boniperti rimase colpito, capì che il calcio era cambiato.
Il suo tempo svoltò con il Mondiale del 1982. Era abituato a risolvere l’aggiornamento dei contratti in un pomeriggio. La sua stanza di venti metri quadri sempre piena del fumo di sigarette e un contratto già compilato sulla scrivania dove mancava solo la firma del giocatore. Si entrava, si cercava di discutere, lui guardava, chiedeva, dava improvvisamente del lei: «Sa dove si trova? Con chi gioca? Firmi, grazie». E fuori dalla porta c’era il suo assistente Giuliano a ributtare dentro chi se ne andava arrabbiato. Nell’estate dell’82 la Juve aveva però due suoi campioni del mondo che si presentarono con l’agente. Era cominciato un altro calcio. Boniperti lo capì subito, ma non lo accettò mai.
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Maurizio Crosetti, la Repubblica
Soffriva, perché ormai non ricordava più. «E alla mia età ricordare è tutto». Da qualche anno Giampiero Boniperti era avvolto dalla nebbia, dal male della dimenticanza, eppure ogni volta che gli moriva un amico lui lo capiva, lo sapeva. «Invecchiare è una merda perché vedi andarsene tutti, e alla fine rimani solo tu». Anche la testa se n’era andata, come i compagni di un tempo, ma il resto no: prima di compiere novant’anni andava ancora a caccia. Le sue gambe erano tronchi. I suoi polmoni, mantici. Raccontava di quando Fausto Coppi non riusciva a tenergli il passo, col fucile in mano. «Si fermava con la scusa che camminare nel fango della campagna gli rovinava i muscoli, e io gli dicevo: ma Fausto, ti rendi conto?, tu sei Coppi e noi non siamo nessuno!» Non sentiremo più la voce di tuono del presidente, capace però di soffiarla come un sibilo tra i denti stretti, come fanno i cani prima di mordere. A 92 anni ha smesso di restare l’ultimo, e l’unico. Lui e la Juve erano materia indivisibile, però la mitologia non è esente da errori. Il più consueto è l’attribuzione della famosa frase «vincere non è importante ma è l’unica cosa che conta »: Boniperti non la coniò affatto ma la citò soltanto. Quel motto appartiene a due allenatori di football americano, nessuno sa chi la pronunciò per primo tra Henry Russel Sanders e Vince Lombardi. Il presidente la lesse su uno striscione, se ne innamorò e volle raccomandarla al popolo bianconero in una notte speciale, l’inaugurazione del nuovo stadio, quando nel buio del prato si illuminò una panchina, quella della storica fondazione (cioè, non proprio l’originale), e sopra stavano seduti Boniperti e Del Piero, il suo migliore acquisto (Platini lo aveva preso lui, ma l’aveva preteso l’Avvocato).
Il presidente era elegante, superbo, gentile, ferocissimo. In campo lo raccontavano come un diavolo: chi provava a colpirlo, di solito si faceva due volte più male. Boniperti era odiato in quanto Juventus, e amatissimo per l’identica ragione. «Nel riscaldamento prima delle partite andavo in campo da solo, a prendermi insulti e sputi. Era giusto che facessi da parafulmine: io ero Boniperti».
Nel calcio è stato il Valletta dell’Avvocato. L’idea della squadra azienda, stampata come una carrozzeria e imbullonata come una scatola del cambio, l’ha imposta lui. La Juve era la sua devozione e il suo stile, a qualunque costo. Quando a metà degli anni Ottanta i primi esperti di merchandising inventarono la mascotte Giampi, un bobtail di peluche con i capelli lunghi, Boniperti abbozzò ma non gradì: fosse dipeso da lui, lo avrebbe mandato dal barbiere.
Quando leggeva qualcosa che non gli garbava, diventava una furia e telefonava di mattina presto, gridando. Ma la volta dopo ti abbracciava dopo averti dato un calcio nel sedere o un cazzotto nello stomaco, e poi diceva: «Forza, adesso prova tu». Nessuno mai osò.
Da ragazzino portava il distintivo della Juventus sulla giacca, la “muda” del giorno di festa. «Sognavo di giocare anche solo una partita con la maglia bianconera: mi sarebbe bastato per essere felice per tutta la vita. Il destino me ne ha fatte giocare oltre quattrocento». L’ultima la decise lui, d’improvviso, il 10 giugno 1961 contro l’Inter. Quel giorno debuttava tra i nerazzurri Sandro Mazzola che segnò su rigore, anche se fu goleada per la Juve. Alla fine, prima di consegnare per sempre gli scarpini al magazziniere, Boniperti andò dal ragazzo magro come un chiodo e gli disse: «Sei bravo, cerca di essere degno di tuo padre».
La grandezza del campione è stata la sua modernità: Boniperti giocava d’attacco ovunque, come gli olandesi che non erano ancora nati. Quella di dirigente è stata il potere calato nell’intuizione (la più felice, Trapattoni). La Juve era ricchissima ma non scema, e doveva tener conto della pace sociale in fabbrica. Questo portò Boniperti a commettere anche un grande errore: non insistere per Maradona, come invece gli aveva detto Gianni Agnelli, a cui dava del lei (l’Avvocato lo chiamava semplicemente Boniperti, però con il “tu”). «Se questo Maradona fosse così forte, lo conoscerei ».
Nessuno più fedele alla causa bianconera, più piemontese nella dedizione militaresca: sembrava un generale del Nizza Cavalleria. Eppure fu nudo e solo nella notte di Bruxelles, dopo avere passato in rassegna tutti i morti all’obitorio. Nessuno più di lui sapeva, in quei terribili momenti, che l’unica cosa che conta non è vincere ma vivere.
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Piero Bianco, La Stampa
Tutto cominciò con una mucca. «Ero da poco alla Juve – raccontava divertito Boniperti – e segnavo parecchio. L’Avvocato mi chiese cosa volessi in premio. Una mucca per ogni gol, risposi, ma la scelgo io». Dopo qualche mese la pacchia finì: «Giampiero, adesso basta: mi stai distruggendo l’allevamento, le scegli tutte gravide». Gianni Agnelli aveva imparato ad apprezzare il suo giovane campione, ma aveva anche capito che non brillava solo in campo: sfoggiava l’astuzia contadina di chi sa monetizzare le risorse, qualità che in seguito ne avrebbe fatto un altrettanto abile manager.
Avevano soltanto 7 anni di differenza, ma Boniperti ha continuato sempre a dare del lei all’Avvocato, anche quando il sodalizio è diventato molto stretto e il rapporto (quasi) paritetico. Il copione era scritto, a cominciare dalle telefonate puntuali alle 6 del mattino, quasi tutti i giorni. Un incubo per Boniperti, che doveva farsi trovare sveglio, ma soprattutto già informato. Agnelli è sempre stato curioso e detestava le banalità: chiedeva di tutto, non solo notizie sulle condizioni dei giocatori. Conosci quel talentino brasiliano? Chi è il miglior giovane in Germania? Chi marcherà Maradona? A volte metteva giù senza attendere la risposta. Si consumava un rituale.
Proprio il Pibe era stato oggetto di grandi discussioni fra i due. Agnelli si divertiva a stuzzicare il presidente della Juve: «Te l’avevo detto che era un fenomeno e non l’hai preso». «Ci ho provato ma il capo della Federcalcio argentina, Grondona, ha messo il veto». In compenso sono arrivati tanti campioni che hanno esaltato l’Avvocato, vincendo tutto. Anche Platini rischiò di diventare un caso: l’Avvocato concluse i preliminari dell’ingaggio mentre Boniperti doveva ancora sistemare Brady (alla Samp). Sul talento del francese, però, nessuno aveva dubbi. Su Tardelli e Scirea invece Agnelli era un po’ scettico («sembrano così fragili») ma il presidente l’aveva stroncato: «Avvocato, lei faccia il suo mestiere che io so bene come fare il mio».
Quando non telefonava, Agnelli si presentava di persona. Sempre all’alba, sgommando con la sua Croma blindata nel giardino della villa bonipertiana sulla collina torinese. «Non stavi mica dormendo?». Un altro incubo.
E in trasferta spesso piombava a sorpresa nella suite di Boniperti, come quella volta a Washington quando la Juve stava per essere ricevuta alla Casa Bianca da George Bush: «Ti spiace se mi faccio una doccia?». Con pochi suoi manager l’Avvocato dimostrava una simile familiarità. In questo gioco delle parti, Giampiero Boniperti era anche l’unico che poteva contraddire Agnelli. Lo faceva con garbo, ma con grande determinazione. E l’Avvocato lo rispettava, perché lo stimava. Non a caso nel 1991 lo richiamò a salvare la patria, dopo un anno di gestione infelice e avventurosa: «Ho sbagliato a lasciarti andar via, rimettiti al lavoro».
Su un argomento trovarono sempre sintonia: la forza dei grandi. «Avvocato, saremo sempre amati oppure odiati – gli diceva Boniperti - ma la storia parla per noi, nessuno ha vinto così tanto. E conta solo vincere». Boniperti citava spesso una battuta di Gianni Agnelli: «A chi gli chiedeva un pronostico, l’Avvocato rispondeva così: vinca la Juve o vinca il migliore? Sono fortunato, spesso le due cose coincidono».
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Giorgio Viberti, La Stampa
Dino Zoff, 79 anni, fra i più grandi portieri di tutti i tempi, si trovò Boniperti come presidente sia da giocatore, nelle 11 stagioni da n. 1 della Juve, sia nei due campionati da allenatore dei bianconeri. Con i quali conquistò 6 scudetti, 2 Coppe Italia e una Coppa Uefa da giocatore, più una Coppa Italia e una Coppa Uefa - nel 1990, dopo una finale tutta italiana con la Fiorentina - da tecnico.
Zoff, chi era Boniperti?
«Un personaggio che ha fatto molto per lo sport, da giocatore e ancor più come dirigente. Un uomo molto deciso, chiaro negli obiettivi e nelle regole, che ha vinto moltissimo».
Era diverso trattare con lui da giocatore o da allenatore?
«No, era sempre lo stesso, un leader. I padroni erano gli Agnelli, ma lui decideva e dava un’impronta nel dettare i modi, le scelte, l’immagine».
Allude allo stile Juve?
«Nessuno come lui aveva quel senso di appartenenza alla società bianconera, quella "juventinità" che con gli anni forse è un po’ cambiata».
Boniperti odiava barbe e capelli lunghi: era giusto così?
«In quegli anni molti pensavano che l’ordine mentale si esprimesse anche attraverso quello esteriore. Per Boniperti era importante come ci si presentava e ci si comportava».
Com’era avere a che fare con lui per discutere gli ingaggi?
«Era un osso duro, molto impegnativo, quasi irremovibile sulle proposte dei contratti, più elastico sui premi in caso di vittoria. Allora non avevamo procuratori e dovevamo cavarcela da soli. Non era semplice spuntarla con lui».
E lei come se la cavava?
«Lo prendevo... per stanchezza. Boniperti ci convocava tutti a Villar Perosa e in un giorno ci riceveva uno dopo l’altro, dalle 7 di mattina in poi, per ordine alfabetico. Io ero sempre l’ultimo e a volte tiravo tardi, anche fino alle 2 di notte, in una lotta allo spasimo e all’ultima energia. Ma erano più le volte che alle 9 di sera aveva già finito, perché sapeva capire le diverse situazioni».
C’era qualche margine di trattativa in quei faccia a faccia?
«Pochi, anche se allora era tutto più semplice perché non c’erano intermediari né i contratti complessi che ci sono oggi. Però dovevi essere bravo a prevedere se e quanti premi partita ci sarebbero potuti essere».
Lei si ricorda anche del Boniperti giocatore?
«Sì e per pochissimo non riuscii ad affrontarlo sul campo. Nel campionato 1961-62 debuttai in Serie A nell’Udinese e giocai titolare a Torino contro la Juve. Ricordo che presi un gol da Charles ma vincemmo noi 3-2. Boniperti aveva smesso pochi mesi prima. Era stato un giocatore molto furbo e deciso, già in campo sapeva quello che voleva e quasi sempre lo otteneva. Lo stesso sarebbe stato poi da dirigente».
Perché secondo lei non fece mai l’allenatore?
«Non gli piaceva, e poi finita la carriera da giocatore gli offrirono subito un posto da dirigente che era perfetto per lui».
La sua frase "conta solo vincere" non stride con lo spirito sportivo di partecipazione?
«Esprime tutta la sua filosofia, fatta di attitudine, dedizione e meriti che danno i risultati».
Esistono ancora oggi dirigenti come Boniperti?
«Il calcio è cambiato molto. Boniperti aveva un potere quasi assoluto che oggi è distribuito tra molte più persone».
Ma lei ha capito perché Boniperti presidente lasciava gli stadi sempre prima del 90’?
«Sapeva che aspettare la fine di una partita lo avrebbe portato magari a dire una frase o una parola di troppo. E non era da lui».
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Walter Veltroni, Corriere della Sera
«Il campionato 75-76 lo abbiamo perso all’ultima giornata. Noi siamo stati sconfitti a Perugia... Quell’estate,il giorno del rinnovo dei contratti, ho messo in bella vista sulla scrivania la foto del Perugia. E quando c’era qualche discussione la indicavo: “Avessimo vinto col Perugia saremmo qui a parlare da campioni d’Italia e sarebbe tutta un’altra cosa...” A quel punto, chi visibilmente chi meno, accusavano il colpo e firmavano». Esiste una aneddotica infinita sul modo in cui Giampiero Boniperti, diventato presidente della sua Juventus, affrontava con i giocatori, tutti ricevuti in una giornata, il tema contratti. Inaspettatamente il più ostico era Zoff, che arrivava a fine sessione, quando Boniperti era provato e ripeteva solo, di fronte a ogni proposta «No, non basta». Non c’erano procuratori e stuoli di avvocati. Non c’erano diritti di immagine né clausole rescissorie. I giocatori erano di proprietà delle società e aspettavano ad agosto, palpitando, una lettera di riconferma. Boniperti voleva dai suoi giocatori un comportamento ineccepibile e interveniva sulla loro vita privata, sollecitando matrimoni, e sul taglio dei capelli o gli abiti che sceglievano. «Qui bisogna vincere, non c’è storia.Qui vincere non è importante, è la sola cosa che conta». La famosa filosofia della Juve fu così definita nel libro che Boniperti, con Enrica Speroni, dedicò al racconto della sua vita.
È stato un calciatore eccezionale, con una visione del gioco e un fiuto per il gol che raramente si incontrano insieme. Ha giocato nella Juve 468 partite e ha segnato 188 gol. Ha cominciato quando c’erano le macerie dei bombardamenti per strada e ha finito quando l’autostrada del Sole era quasi completata. Ha attraversato tre decenni e vinto cinque scudetti e una Coppa Italia. Gli ultimi titoli nazionali, nella società rilanciata da Umberto Agnelli, coabitando, nel reparto di attacco, con Omar Sivori e John Charles. Il primo piccolo, geniale, cattivissimo e il secondo, un gallese gigantesco, buono come il pane. Memorabile la scena dello schiaffo che Charles diede a Sivori in campo per farlo calmare.Quel Charles che quando Boniperti annunciò il suo ritiro disse solamente, commosso, «Io non credere». In quattro anni, insieme, quel trio aveva vinto tre scudetti.
Boniperti era nato punta ma diventato centrocampista, con l’età. Smise presto, a 33 anni, ma aveva cominciato a sedici nel Barengo e in bianconero aveva esordito contro il Milan a 19. Quando smise diede al magazziniere Crova gli scarpini «Non gioco più». Quello stupito gli rispose «Vai via, falàbrac» e lo stesso Gianni Agnelli gli telefonò alla ripresa della preparazione, in estate, e gli disse di andarsi ad allenare perché «c’è la Coppa dei Campioni», eterno incubo bianconero. Ma la moglie lo convinse a non cambiare idea e gli scarpini Boniperti se li andò a riprendere solo un giorno per metterli nella sua stanza di presidente. Disse il giorno del ritiro: «Se proprio si vuol scrivere di me, vorrei che dicessero che stamane il signor Boniperti anziché ad allenarsi va al lavoro come un qualsiasi cittadino torinese».
E ci andrà al lavoro, ma da presidente della squadra i cui colori aveva tatuati nel cuore, dove non si vedono ma restano per sempre. Eccezionale presidente della Juve forse più bella di sempre, quella di Trapattoni e di Scirea, Rossi, Tardelli, Cabrini, Causio, Zoff, Bettega, Capello, Gentile, Boniek, Furino, Boninsegna, Brady… Quasi venti anni da presidente con nove scudetti vinti e tutte le coppe possibili in bacheca. E nel 1985 visse con dolore la tragedia dell’Heysel.
Non sopportava la tensione delle partite e andava via dallo stadio a fine primo tempo. Grande giocatore, grande presidente, persona ferma e gentile, educata e combattiva. Juventino fino al midollo ha solo sofferto per aver giocato, nei Cinquanta, in una Nazionale che era segnata dalla tragedia del Grande Torino. Fu dando la mano — alla fine di una contestata partita con i ragazzi dell’Inter, a Sandro Mazzola, figlio di quel Valentino con e contro il quale aveva giocato — che si concluse la prima carriera di Giampiero Boniperti.
La seconda, non meno entusiasmante, sarebbe iniziata dieci anni dopo. Gli sarebbe piaciuta oggi questa nazionale, che si diverte per vincere ed è tosta in campo. Proprio la sua filosofia. Nel calcio e nella vita.
I ragazzi azzurri, scendendo in campo, gli rivolgano un pensiero grato. Giampiero Boniperti è stato tanto, per il calcio e lo sport italiano.
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Piero Mei, Il Messaggero
Il Presidentissimo se n’è andato nella notte torinese pochi giorni prima di compiere 93 anni: sarebbe avvenuto il 4 luglio. Giampiero Boniperti ha avuto una crisi cardiaca. Tutti o quasi, tracimando sul web, l’hanno chiamato così: pure chi lo ricordava ancora come il magnifico giocatore che fu e che dal 1946 al 1961 vestì la maglia della Juve e solo quella («La Juve non è la mia squadra del cuore: è il mio cuore», diceva), 443 volte, ma, a parte le 38 azzurre, una volta indossò perfino quella del Toro; fu a fine maggio del ’49 per ricordare il Grande Torino, volato via da poco nel cielo di Superga. Il giovane Boniperti aveva un idolo tra quei campioni: Valentino Mazzola. Una volta, durante un derby, tirò nella porta torinista e si girò alzando le braccia trionfante; non s’avvide che sulla linea di quella porta un granata aveva impedito al pallone di entrare: guardò in avanti e solo allora s’accorse che un altro granata era davanti al portiere juventino e stava segnando. Un altro? Ma no, era lo stesso granata, sempre Valentino, diceva Boniperti ancora incredulo dopo anni e anni.
Quegli anni di scudetti: ne vinse cinque, compreso il decimo, quello della prima stella. Giocava alla fine un po’ più indietro, centro-campista con il trattino inventò per lui Gianni Brera: c’erano Charles e Sivori. I rimpianti del web ce li hanno mostrati ancora insieme ieri sui social: chissà che giocate ora lassù, scrivevano. Da un Mazzola all’altro: quando decise di ritirarsi, il 10 maggio 1961, aveva di fronte, da avversario nerazzurro in una polemica partita che finì 9 a 1 per la Juve contro i ragazzini dell’Inter, un adolescente di nome Sandro. Di cognome Mazzola. L’avrebbe poi voluto alla Juve; Sandro fu tentato, ma non ci andò: «Mia madre mi avrebbe ammazzato». Quando lasciò, Boniperti si ritrovò con addosso un soprannome e con una mandria di mucche. Il primo glielo aveva appioppato, rimirando i boccoli biondi che il campione teneva carissimi e ben curati, un altro nerazzurro, Benito Lorenzi, che chiamavano «Veleno». Lui chiamò Boniperti «Marisa». La seconda, la mandria, gliela fornirono i fattori di casa Agnelli: aveva contrattato con l’Avvocato un bonus a ogni gol, una mucca. Piedi buoni e cervello fino, il geometra Giampiero Boniperti ne sceglieva ogni volta una gravida, così il premio era doppio. Neanche i razziatori per procura di oggi arrivano a tanta astuzia. Poi, da dirigente e successivamente presidente, sempre bianconero, gli scudetti furono ancora di più, nove, compreso il ventesimo, quello della seconda stella, e un bel po’ di trofei internazionali. L’Avvocato diceva che non gli aveva fatto comprare Maradona: per questo andò a prendersi Platini con l’aereo personale? Da Presidente lo misero in panchina quando cercarono la rivoluzione della modernità con Maifredi; lo richiamarono d’urgenza; poi quando venne al potere un altro trio, mica Magico come veniva chiamato con Sivori e Charles, bensì il trio Bettega-Giraudo-Moggi che finì con Calciopoli, lo richiamarono di nuovo, almeno per la presidenza onoraria, perché Boniperti era l’onore di una certa Juve, quella dello stile poi smarrito: sì, «l’importante non è vincere, ma la vittoria è la sola cosa che conta», come diceva Boniperti, ma bisognava farlo con stile, come insegnava l’Avvocato. Che era anche quello di dire, come faceva Boniperti ai neoacquisti, «presentatevi con i capelli corti, perché il calcio vuole la testa leggera». O di mettere fuori rosa, almeno per una settimana, i campioni del mondo che chiedevano un ritocchino al contratto. Che avrebbe fatto con i campioni di nulla d’oggi? Portò dalla sua parte, la parte Juve, il Trap e Del Piero, Scirea, Tardelli, Causio, e via via tutti gli altri, Peccato per Maradona, gli avrebbe ironicamente rinfacciato Gianni Agnelli. Che però ben sapeva che la Juve erano loro due, o tre con il Dottor Umberto. Almeno quella Juve.