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 2021  giugno 18 Venerdì calendario

Calasso e le allucinazioni di Hitchcock

Come Roberto Calasso scrive nel suo mercuriale, scosceso e lampeggiante saggio Allucinazioni americane (Adelphi. Pag. 140. Euro 14,00), «i film di Hitchcock tendono a diventare più belli, quando si rivedono». Soprattutto Vertigo (La donna che visse due volte) si potrebbe riassaporare per anni scoprendo tra le sue pieghe, le sue visioni o allusioni sempre nuove forme di seduzione o ipnosi, sempre nuovi sortilegi e misteri. Non è un caso se molti lo ritengono il capolavoro assoluto di Hitchcock, e se per altri – non pochi – è addirittura l’opera suprema del cinema. Per quanto mi riguarda, dopo aver rivisto questo film con James Stewart e Kim Novak un’infinità di volte (non saprei contarle) e dopo aver scritto, circa vent’anni fa, un piccolo libro di cui Vertigo era il nodo scorsoio, so benissimo di non averlo mai “capito” davvero, forse perché nel suo cuore senza cuore, nel suo spirito tragico e fluttuante, fatale e nebbioso si cela qualcosa di incomprensibile come un abisso sciamanico, come una danza di fuochi fatui in un pozzo senza fondo.
Cucendo e ricucendo frammenti o tarsie di scrittura mobili e puntute, mettendo e rimettendo in gioco lo sguardo che esplora e il pensiero che indaga, Calasso ci dice che il cinema è il luogo delle immagini mentali, del loro misterioso e ossessivo ritorno tra le risacche o le volute dei nostri sogni e delle nostre rêveries: di questa ossessività Vertigo è «l’abbagliante emblema» o l’archetipo. Al fondo o alla radice delle immagini mentali stanno i «fosfeni», quelle pure scintillazioni, quei ghirigori o lampi di luci, linee o figure che sfuggono alle teorie dei neurologi ma che popolano le nostre visioni diurne e notturne. In Vertigo i fosfeni annidati nell’apparizione di Madeleine (il verde del suo scialle, la spirale del suo chignon) si coagulano subito per Scottie in un’immagine tanto più magnetica quan- to meno circoscrivibile in una qualunque certezza. In tutto l’arco del film – dall’auto di Madeleine alle scatole della fioraia, dalla sequoia sempervirens al neon dell’albergo che illuminerà la riapparizione di Judy ridiventata Madeleine nella sequenza più emozionante e mitica – il verde brillerà, ondeggerà, scivolerà attraverso gli occhi e la mente di Scottie, e dello spettatore che non potrà fare a meno di immedesimarsi con lui, come il flou misterico, come l’alone leggendario o spiritico palpitante attorno alla donna per fare di lei un idolo imprendibile e struggente, un fantasma lancinante e impossibile della bellezza. Allo stesso modo diverse forme a spirale – da quelle che ruotano all’interno di un occhio nei titoli di testa allo chignon di Madeleine e dei suoi alter ego (Carlotta Valdez, la moglie di Elster) fino alla scala a chiocciola nella torre della missione – attraverseranno l’intera architettura ottica del film facendola gravitare verso una sorta di imbuto allucinatorio, verso un «giro di vite» refrattario a ogni presa. Scottie, annaspando dentro questa storia più grande di lui perché creata da un regista demoniaco (Elster), finirà per essere il complice del copione di lui: se Elster saprà “creare” Madeleine manipolando Judy, se saprà fare di
lei una specie di turbativa divinità delegata a sottomettere Scottie come il fedele di un culto privato, a sua volta quest’ultimo sarà risucchiato dal bisogno inconscio di continuare a “ricrearla” nella sua aura, di continuare a esaltarla proprio per la sua natura falsa, illusoria ma tanto più seducente – seducente e mortale come il volto dell’ultima sirena. Pur avendo il terrore del vuoto, Scottie ne è attratto come da un ponte sospeso fra la realtà e i sogni, il presente e il passato, eros e thanatos.
Ciò che egli tenta sino in fondo è cercare di saggiare la consistenza di questo ponte immaginario ma più vero del vero, vero come possono esserlo solo il corpo di lei, il suo profilo, il suo chignon, i suoi baci sempre sull’orlo dell’abisso.
Alternando i punti di vista in una toccata e fuga di frammenti che assomigliano a inquadrature diverse (campi lunghi o lunghissimi, piani americani, primi piani, dettagli) o a diversi movimenti di macchina, Calasso è magistrale nel cogliere del film sia gli snodi cruciali o i passaggi segreti – come quel budello attraverso cui Scottie pedina Madeleine sino alla fioraia, suo primo ingresso in un cammino iniziatico nel dubbio – sia gli orizzonti ultimi, le domande senza risposta, il vortice metafisico. Una parte significativa del libro è dedicata a un confronto tra Vertigo e Rear Window ( La finestra sul cortile), film assai differenti ma fraterni perché anche il secondo esplora il territorio iperreale e sfuggente delle immagini mentali: cos’è il cortile costellato di finestre simili a tableaux vivants che James Stewart spia col teleobiettivo se non «un teatro di posa della mente»? Questa rilettura di Rear Windowtrascina i pensieri di Calasso molto lontano, fino a spunti filosofici ispirati al Vedanta; ma la sua passione, coltivata fin da giovanissimo, per il cinema allo stato puro, per il cinema come piacere libero dai “significati”, lo porta poi a dedicare alla Lisa (Grace Kelly) di questo film, e alla “nube rosata” della sua camicia da notte, alcune righe che suonano come un omaggio alla poesia delle apparenze, amabile controcanto agli abissi di Vertigo.