Corriere della Sera, 18 giugno 2021
I ricordi di Umberto Silva
È davvero un romanzo, e si legge come tale, Turmac bleu, l’«autobiografia sognata» di Umberto Silva che Bompiani pubblica in questi giorni (pp. 182, e 16). Lo è, non tanto perché Silva, scrittore, cineasta, psicanalista nato a Pellio Intelvi, vicino a Como, da un’antica famiglia di origine portoghese, ha avuto insieme – che stranezza! – una doppia vita ordinata e irregolare, borghese e ribelle, quanto per la sensazione irresistibile di libertà, profonda e vera, che riesce a comunicare al lettore nel racconto delle vicende, importanti o superflue, dolorose o allegre, che hanno segnato la sua esistenza.
Cominciando, per l’appunto, dall’infanzia lombarda negli anni Cinquanta, vissuta dapprima nella sontuosa villa nascosta in un parco di tigli a trenta chilometri da Milano (con camerieri, autisti, guardarobiere, istitutrici come nella dimora poco lontana da San Pietroburgo dei Nabokov); quindi a Milano, nella centrale via Mario Pagano. Quelli, erano anni, duri per molti, sanguigni per tutti, nei quali a Milano si sentiva, nella nebbia, il suono delle sirene delle fabbriche di notte e all’alba, le serve venivano dal Veneto e dal Friuli (e seguendo i signori in vacanza in Liguria, vedevano la sabbia e il mare per la prima volta); in chiesa, alla messa, i preti picchiavano tosto sul peccato; i ragazzi delle buone famiglie andavano a scuola dai Gesuiti, aspettavano con segreta trepidazione l’ostia, e prima di Pasqua facevano il ritiro spirituale. La guerra, finita da poco più di un lustro, sembrava inghiottita. I Silva, enormemente ricchi, avevano un padre enormemente lapidatore. Bello, elegante, pieno di amanti (una, fissa, la frequentava persino il giorno di Natale, dopo i regali e un pranzo austero), al danaro non dava nessuna importanza: lo buttava sui tavoli da gioco. E, per i suoi tradimenti, faceva soffrire a morte sua moglie. Ma, per Umberto, era un mito: l’angelo infernale che poteva trascinarlo nell’abisso.
E cosa fece, Umberto, per contrastarlo e non lasciarsi inghiottire in quel buio che lo tentava, se non aderire, dopo quello cattolico, a un altro rito che potesse garantirgli ordine e certezza, cioè iscriversi al Partito comunista? Un ricco con i comunisti: perché no. Poi, abiurato il Pci, venne Roma: la sirena. E, con Roma, i pittori di quegli anni (Angeli, Schifano), il cinema, la scuola sperimentale, i film, i ricevimenti di Marina Ripa di Meana nei quali si poteva fare la conoscenza con La Capria e Moravia, con Parise sempre cupo in queste manifestazioni mondane, le ragazze, gli appartamenti da quattro soldi, i matrimoni a ripetizione, le vacanze nei posti giusti.
Roma può essere davvero una ammaliatrice: e in quegli anni di euforia lo era più che mai. Ma Umberto era, ed è, un irregolare. E, a un certo punto, con la sua ultima moglie, Sonia, da Roma se ne andò. A Padova: dove, come Sonia, cominciò a fare lo psicanalista. E dove nacque Sofia, l’essere Unico, Irripetibile, il grande Amore della sua vita, alla quale è dedicata l’ultima parte del libro. L’irregolare era ridiventato ordinato? Manco per niente. L’irregolare, ancora adesso, nel pieno delle notte, alle tre, si sveglia, va in cucina, divora un vasetto di miele, e gira per casa come un Ombra: fuggendo le Ombre che lo inseguono, o forse cercandole, non si sa; e pregando: da quanto ho capito.
Che bello questo libro che, coi suoi lampi, copre quasi un secolo, e va sempre al di là: cioè prospetta, senza nominarlo – come può fare soltanto un buon borghese rispettoso dei suoi limiti – il dopo e l’altrove.