la Repubblica, 17 giugno 2021
Da Nenni a Berlusconi i rapporti con Pechino tra dialogo e caute proteste
Nel 1954, durante il suo primo viaggio, il futuro ministro degli Esteri Pietro Nenni si sentì chiedere da Mao se era vero che Mussolini era stato socialista. A Nenni piacque molto la Cina anche se, come rivelò maliziosamente Pertini, «faceva assaggiare dalla moglie i cibi prima di provarli». Il dettaglio non è ovviamente risolutivo. Ma certo alcuni anni dopo Nenni si spese molto per il riconoscimento della Cina da parte dell’Onu.
Tra sacro e profano, i democristiani si erano già ben portati avanti. «E vacci!»: così Giorgio La Pira rispose ai dubbi di Enrico Mattei sull’opportunità di una visita d’affari. Era il 1958: «Posto che la guerra è impossibile, troviamo una formula di coesistenza commerciale. I cinesi sono 700 milioni: anche solo a regalargli una cravatta a testa faresti un affare!».
Nel 1965 lo stesso La Pira capitò laggiù, pure lui entusiasta: «Tutto pulito e lindo, neanche un mendicante». L’anno seguente, sempre sulla via di Hanoi, si fermò a Pechino una delegazione del Pci, Berlinguer Galluzzi e Trombadori, trovandosi nel pieno della rivoluzione delle guardie rosse. Non senza motivi considerati amici dei nemici sovietici, gli italiani vennero confinati in albergo mentre per strada si scatenava l’ira di dio. «Una mattina – ha ricordato Trombadori – Enrico ci disse di aver avuto la sensazione che durante la notte uno di quegli scalmanati fosse entrato nella sua stanza a frugare». Mentre ottima accoglienza ottennero poi i gruppettari. «Abbiamo un 50 per cento di operai negli organi dirigenti» comunicarono ai dignitari del Pcc quelli di Lotta continua. «Bene – risposero – e gli altri tutti contadini?».
Conviene a volte allargare il tavolo della cronaca, o se si vuole della storia, per meglio cercar di capire le accelerazioni del presente. Al netto degli exploit di Grillo, degli accordi della seta firmati con difficoltà dal governo gialloverde, delle arance e del porto di Palermo accordati da qualche cinque stelle in vena di protagonismo; al netto delle intemerate di D’Alema, degli antichi rapporti di Romano Prodi e da un nugolo crescente di scambi commerciali, alcuni convenienti e altri (vedi respiratori spompati e mascherine tarocche) truffaldini, ecco, è difficile individuare con precisione i contorni di un vero e proprio partito cinese. Già più facile è stabilire, con ragionevole e necessaria approssimazione, che tutta la Prima Repubblica e buona parte della Seconda ha avuto un atteggiamento morbido rispetto alla Cina. Basti pensare alla sbrigativa “deplorazione”, certo “profonda” ma senza iniziative concrete, da parte di un governo De Mita dimissionario rispetto ai fatti di Tien an Men (1989).
Adesso che i cinesi sono diventati un pericolo si potranno dire tante cose, ma altrettante simularne e dissimularne, inconfessabile specialità nazionale. Vuoi per istinto o vuoi per esperienza, la diplomazia della Repubblica è restia al manicheismo, tanto più gli italiani diffidano dei nemici che diventano tali da un momento all’altro, specie per conto terzi. Sono temi complessi, ma per quanto riguarda la Cina a lungo è prevalsa la logica di giocarsi i rapporti in funzione antisovietica (logica che anche adesso può essere utile); nel frattempo si è sviluppato da quelle parti un enorme e promettente mercato e da tempo la Santa Sede raccomanda prudenza.
O almeno: nel passato prossimo non era così grave passare per amici dei cinesi. Lo divenne a suo modo anche Berlinguer, che nel 1980 fu accolto come un capo di Stato; idem Andreotti, che lì ebbe in dono l’ideogramma della longevità; lo fu Craxi, di cui resta famoso un trionfale viaggio con una vagonata di “suoi cari”; e anche Pertini, che pure piantò una grana perché all’università voleva parlare con gli studenti “veri” e non con quelli speditigli incontro dal Pcc. Lo stesso Berlusconi ha ondeggiato fra spropositi e seduzione, per cui un giorno se ne uscì con i bambini cinesi bolliti e usati come fertilizzanti, ma poi accolse l’imperatore comunista riempiendo Roma di lanterne cinesi. Un giorno una delegazione gli recò in dono un prezioso vaso e lui fece finta di farlo cadere, ooops, vecchia gag. Tutti a ridere. Poi confidò: «Così la prossima volta me ne portano uno col kamasutra» che però con la Cina non c’entra nulla.