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 2021  giugno 16 Mercoledì calendario

Puškin: “Mi sposo, aiuto”

“Il futuro non mi appare rosa, ma nella sua nudità. I dolori non mi sorprenderanno: sono inclusi nel mio bilancio domestico – ogni gioia sarà inattesa”. Così Aleksandr Puškin, in una lettera del 1831, confessa all’amico Krivtsov la sua determinazione a prender moglie “pur senza passione, senza infatuazione giovanile”. Pochi mesi prima, proprio alla ponderazione tra la vita da scapolo e quella da ammogliato, il trentenne Puškin aveva dedicato – all’indomani del fidanzamento con la giovane e avvenente Natalija Goncharova (antenata dell’omonima pittrice) – un brevissimo frammento falsamente presentato come “tradotto dal francese”, ora riproposto in un agile volumetto da Claudia Zonghetti per i tipi di Henry Beyle.
La mia sorte è segnata: mi sposo pare a tratti un goliardico bignami di alcuni dei topoi letterari contro il “grande passo”, dalle Quindici gioie del matrimonio alla Sonata a Kreutzer. La banalità (“a trent’anni la gente si sposa”). Il sacrificio dell’indipendenza indolente e viziata, dei viaggi senza meta, dell’infedeltà festaiola dello scapolo (ricco e gaudente, ovviamente, come lo scrittore). La paradossale e malcelata speranza di ricevere un rifiuto (Puškin fu respinto da tre donne, una delle quali ne annotò sul proprio diario il “profilo di negro”, le unghie lunghe, la bassa statura e la strafottenza). La codificazione sociale, e dunque la profanazione pubblica, di un sentimento romantico nato nel segreto di due cuori: il peso dei suoceri baciapile, dei conoscenti ficcanaso, dei soldi (le trattative sulla dote di Natalija durarono per mesi, e il rapporto coi Goncarov finì più volte sull’orlo della crisi).
“Era possibile, era vicina/ la felicità… Ma ormai/ è deciso il mio destino./ Forse un po’ troppo mi affrettai…”: nelle ultime strofe dell’Evgenij Onegin è con queste lapidarie e sconsolate parole che Tatiana, ormai moglie del principe Gremin, respinge le struggenti profferte del protagonista, che ancora l’accende di fiamma ma che anni prima aveva a sua volta rifiutato un’esplicita proposta di lei argomentando, da vero alter ego del Puškin mondano: “Sarebbe (vi dico in coscienza)/ La nostra unione una sofferenza;/ E l’abitudine il mio amore/ tramuterebbe in disamore”.
L’Onegin, dopo una gestazione di anni, fu portato a termine da Puškin proprio in quella formidabile estate del 1830, poche settimane dopo il fidanzamento con Natalija e la stesura del frammento sul matrimonio: “È deciso il mio destino” (trad. di Giovanni Giudici) e “La mia sorte è segnata”, titolo e incipit del nostro frammento, sono la stessa frase (“No sudba moya uzh reshena”, cantata peraltro nel memorabile duetto finale dell’Onegin di Cajkovskij). Le nozze come un fato, uno sbandamento pubblico e irreversibile, che fa perfino rimpiangere “l’usanza di un popolo antico” (gli spartani): il ratto della sposa.
Ma c’è di più: quando Puškin decide di presentare questo frammento come “tradotto dal francese”, pare voglia identificare in quella lingua e in quella cultura il simbolo della vita libera e del libertinage: e in effetti, nella fitta corrispondenza epistolare dell’autore con Natalija (un vero scrigno di vita quotidiana e di inventiva stilistica, in cui il grande Jurij Lotman scoprì un Puškin tutto realismo e semplicità), le lettere sono scritte in francese fino al matrimonio, e in russo dalle nozze in poi. Pare quasi che il “grande passo” respinga per sempre il Puškin viveur in un passato remoto, costruendo forzosamente una nuova, quadrata ideologia russa secondo cui “non c’è felicità che nelle vie comuni”, e il “bilancio domestico” non consiste nel pedestre calcolo di una dote, ma nella possibilità – garantita appunto solo dalle nozze – di “invecchiare bene”.
Ma Puškin non invecchierà: vani i suoi richiami epistolari alla moglie a evitare flirt ambigui, al punto che, dinanzi al degenerare dell’aperta tresca con l’ufficiale francese Georges d’Anthès, lo scrittore non potrà che sfidare il rivale a un duello per lui fatale (1837). E così la fascinosa Natalija, stella della corte e beniamina dello zar Nicola I, si conquisterà – anche presso le grandi poetesse del Novecento, dalla Achmatova alla Cvetaeva – la fama, forse immeritata, della novella Elena che con la spada della sua bellezza segna la sorte dell’eroe della letteratura russa.