la Repubblica, 16 giugno 2021
La resurrezione dell’Alleanza Atlantica
Nessuno dubitava che la resurrezione dell’Alleanza Atlantica sancita a Bruxelles avrebbe avuto riflessi anche sulla nostra politica, ma i tempi sono stati più veloci del previsto, con un attacco aspro e diretto di Beppe Grillo volto a tutelare le posizioni della Cina. Il che lascia intendere come l’iniziativa di Biden abbia tracciato una linea sulla sabbia. È chiaro che il mondo di oggi non è quello di fine anni Quaranta, quando la Nato rimodellò i Paesi usciti dalla guerra. Allora fu la cornice in chiave anti-sovietica nella quale per decenni si sviluppò il dibattito pubblico nelle varie formule dei governi: centrismo, centrosinistra, pentapartito, anche solidarietà nazionale quando i tempi apparvero maturi. La Dc e i suoi alleati, da un lato; il Pci dall’altro, forte, ramificato ma consapevole di non poter ambire al governo nazionale (il “fattore k” di Alberto Ronchey).
Settanta e più anni dopo l’Alleanza rinasce come asse del patto fra le democrazie che Biden propone sia ai Paesi del G7 sia in particolare agli europei. La Cina è inquadrata come l’avversario principale da tenere sotto controllo e da limitare nel suo espansionismo. C’è tensione anche con la Russia di Putin, ovviamente, ma su scala diversa, in quanto l’obiettivo è evitare che Mosca e Pechino facciano fronte comune: uno scenario peraltro assai sgradito ai russi. In tutto questo il presidente del Consiglio ha definito il suo ruolo come principale interlocutore dell’amministrazione americana sul teatro europeo e mediterraneo. In parte dipende dai rapporti personali, nel presupposto che l’europeismo esiste solo se vincolato all’atlantismo. In parte dalla fase di transizione in cui naviga l’Unione mentre l’Italia riguadagna prestigio sul piano internazionale.
Ora, per quanto il mondo sia cambiato, Biden resta figlio della cultura euro-atlantica. Rispetto all’isolazionista Trump non si pone nemmeno il paragone, come ha sottolineato Draghi con una frase piuttosto inusuale ma utile a fissare il punto politico. E anche con le priorità di Obama ci sono sensibili differenze. Draghi in Italia è senza dubbio il beneficiario della nuova fase.
Quello che in passato fu un equilibrio garantito da un assetto politico (Dc e alleati), oggi ruota intorno a una singola persona dietro cui il sistema è sfilacciato ed evanescente. Il che alla lunga crea incertezze, ma soprattutto pone una volta di più l’esigenza di una rigenerazione di idee e programmi che potrebbe partire proprio dalla politica estera. Il rapporto con la Cina (gli accordi sulla Via della Seta da rivedere), quello con la Russia, la politica mediterranea, la Libia e la gestione dell’immigrazione: i temi non mancano, se le forze politiche volessero affrontarli con il realismo di chi sa che questo è il momento di ricostruire. È comunque la via obbligata per chi si candida a governare nei prossimi anni. Ciò vale sia per le forze tradizionali del centrosinistra e della destra moderata, sia per i nuovi attori “sovranisti”, dalla Lega di Salvini a Fratelli d’Italia. Perché è evidente che il peso dell’Italia nel mondo si deciderà sulle scelte concrete e non sugli schemi ideologici. Quanto a chi si colloca legittimamente fuori della cornice neo-atlantica e si schiera con Pechino, come appunto i 5S di Grillo (Di Maio parla già un’altra lingua, Conte è ancora impacciato), è prevedibile che rimarrà escluso dai futuri governi politici.
Proprio come il vecchio Pci fu frenato dal rapporto con l’Urss.