la Repubblica, 16 giugno 2021
Intervista a Claire Messud
Claire Messud ha debuttato nella narrativa nel 1995, e da allora ha pubblicato sei romanzi e due racconti lunghi, accolti con grande favore dalla critica statunitense e internazionale. In questi giorni Bollati Boringhieri ripubblica in Italia il libro d’esordio, intitolato Quando era tutto in ordine, con un’ottima traduzione di Costanza Prinetti, grazie al quale venne accolta come «un talento impressionante» dal New York Review of Books.
La scrittrice rivendica con orgoglio il fatto che il padre fosse un pied noir di origine algerina e la madre canadese, ma è nata a Greenwich, una bella cittadina residenziale del Connecticut. Ha passato l’infanzia e l’adolescenza in Canada e in Australia prima di stabilirsi definitivamente negli Stati Uniti, dove ha sposato l’inglese James Wood, il severissimo critico letterario del New Yorker.
Questi dati biografici aiutano ad apprezzarne lo sguardo privilegiato dal fatto di avere allo stesso tempo una formazione americana e l’approccio di chi sa di avere le proprie radici altrove. Sin da questo primo libro la sua scrittura riesce a essere insieme profonda e leggera, e la cultura, assolutamente eclettica, non è mai occasione di sfoggio, ma nasce da quella volontà di approfondimento generata dall’intelligenza del dubbio.
Tutti questi elementi sono presenti nel suo romanzo più celebre, I Figli dell’Imperatore, come anche in Quando era tutto in ordine. Se nel primo ha raccontato con maestria il mondo dei cosiddetti “glitterati”, neologismo che intende le personalità più glamorous del mondo della letteratura, nel libro d’esordio mette a confronto la vita di due sorelle londinesi, Emmy e Virginia Simpson, le quali, raggiunta la mezza età, si trovano a fare un bilancio esistenziale: la prima, a seguito del fallimento del proprio matrimonio, si trasferisce dall’Australia a Bali, mentre la seconda, che non ha mai viaggiato al di fuori di Londra, accompagna la madre nell’isola di Skye.
Si tratta di un debutto di sorprendente maturità, nel quale la Messud utilizza al meglio un tono agrodolce per immortalare, con una notevole capacità di introspezione psicologica, due personaggi segnati da un dolente anelito di felicità. «Sono molto felice che il romanzo esca di nuovo», racconta nella sua casa di Cambridge, nel Massachussets, «ho voluto rileggerlo prima per questa occasione: non lo faccio mai con i miei vecchi libri».
Che impressione le ha fatto, rileggendolo?
«Se dico che mi è piaciuto appaio presuntuosa, se dico invece che si sente che è il mio primo romanzo, sembra che prenda le distanze. Mi limito a dire che a trent’anni di distanza mi sono riconosciuta totalmente».
Come è nato il libro?
«Ho iniziato scrivendo i due personaggi principali già all’epoca dell’università. Ricordo che il mio maggiore tormento era: poi cosa farò, e come sarà la mia vita? E ho cominciato a chiedermi quali fossero le domande che si ponevano le donne di mezza età: ne vedevo molte che vivevano crisi di vario tipo, a cominciare dal divorzio. Nel frattempo ho raggiunto proprio quella età».
Quanto c’è di Claire Messud in Emmy e quanto in Virginia?
«C’è molto di me in entrambe: sono due donne legate tra loro, ma molto differenti. Le quali, per motivi diversi vivono un’importante esperienza di viaggio: Emmy in un’isola esotica e paradisiaca, Virginia in un posto dalla bellezza aspra. Si tratta di due isole che conosco: andai a Bali con la mia famiglia da adolescente e me ne innamorai perdutamente, mentre Skye è il luogo da cui proviene la famiglia di mio marito. Emmy è ispirata ad alcune amiche che mia madre frequentava all’epoca in cui scrivevo il libro, mentre l’ispirazione per Virginia è una zia, estremamente pia. Lei era cattolica, mentre Virginia è evangelista, e questo certamente nasce dal fatto che lo sono i genitori di mio marito: mi affascinava un personaggio che vive per servire gli altri, sacrificando la propria fede».
In esergo al libro lei ha posto una citazione di Elizabeth Bishop: “È la mancanza di immaginazione a spingerci nei luoghi immaginati, anziché restare a casa? E se Pascal sbagliasse a dire di starsene buoni buoni nella propria stanza?”.
«Innanzitutto voglio dire quanto ami la Bishop e quella poesia. E poi ricordare qualcosa a proposito della sua vita: lei andò in Brasile per un viaggio che doveva durare pochi anni e rimase lì a lungo per amore di Maria Carlota, la donna che amò profondamente. Io penso che quello che ci dice Pascal è molto profondo, ma richiede un enorme dose di maturità. Mi chiedo sempre se i luoghi in realtà non finiscano per cambiarci, così come le esperienze di viaggio».
Che importanza riveste il suo retroterra non statunitense rispetto alla sua vita culturale americana?
«Questo paese è interamente formato da persone come me: soltanto i nativi possono essere considerati autenticamente americani, ammesso che questa definizione abbia senso. Oltre mie ascendenze algerine e canadesi, tra i miei antenati ci sono maltesi, spagnoli e anche napoletani.
Quando Obama venne eletto notai che il suo background era complicato come il mio, e ho pensato che Carter, solo per fare un esempio, è più simile all’immagine standard dell’americano: proprio per questo Obama è stato il simbolo di una nuova America, che sta ancora cambiando».
Lei insegna scrittura creativa: cosa ha imparato insegnando?
«Imparo ogni volta, soprattutto dal modo in cui gli allievi ragionano prima di scrivere. Mentre cerco di offrire agli studenti una struttura, finisco per chiedermi se anche io l’abbia seguita con il rigore che chiedo a loro».
Cosa rappresenta per lei la scrittura?
«Una necessità: non saprei concepire la mia vita in altro modo. Quello che ripeto costantemente agli studenti è: non fatelo se non siete convinti che non scrivendo siete condannati a essere infelici».