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 2021  giugno 16 Mercoledì calendario

Sgarbi e il caso dei falsi autenticati


ROMA – Vittorio Sgarbi ha provato a interferire con l’inchiesta che lo riguardava. Interferire, condizionare, arginare, quantomeno smussare: il verbo più congruo varia a seconda del credito che si vuol dare alle telefonate che ha fatto subito dopo aver saputo del maxi sequestro di opere attribuite al maestro Gino De Dominicis. Era l’estate del 2014. Tele, tavole, pannelli e disegni ritenuti palesemente falsi dai periti della procura di Roma, ma certificati come autentici da Sgarbi e venduti ai collezionisti. Quando il vulcanico critico d’arte, adesso in corsa per l’assessorato alla Cultura del Comune di Roma col ticket di centrodestra Michetti-Matone, è stato informato dell’indagine, si è attaccato al telefono e ha chiamato, nell’ordine: il comandante generale dell’Arma, la presidenza del Consiglio, due ministri, un generale di brigata.
Telefonate di cui è rimasta traccia negli atti. L’istruttoria è stata avviata nel 2013 dai carabinieri del Comando tutela del patrimonio culturale a seguito delle denunce di Paola De Dominicis, unica erede del maestro scomparso nel 1998, assistita dallo studio legale Brunelli di Perugia. Dopo 5 anni di indagini, Vittorio Sgarbi è imputato insieme ad altre venti persone per 32 autenticazioni fasulle e per associazione per delinquere. Oggi è fissata l’udienza preliminare in cui si deciderà se mandare a processo oppure prosciogliere. «Una totale invenzione dei pm – è la versione di Sgarbi – quelle opere sono capolavori e io le autentico come mi pare. De Dominicis è un artista concettuale, i suoi lavori sono fatti con la mente».
Il primo luglio di 7 anni fa i pm sequestrano oltre ai dipinti, 170 certificati (119 firmati da Sgarbi, 51 da Marta Massaioli vicepresidente di una Fondazione dedicata all’artista) «privi di riscontro fotografico». Alle undici di quella sera, Massaioli avverte Sgarbi: «Sai che oggi c’è stato un maxi sequestro?». L’ex sottosegretario berlusconiano è incredulo: «Chiamo il comandante generale dei carabinieri». Dopo un’ora, Sgarbi la ricontatta. «Ho parlato col comandante (nel 2014 Leonardo Gallitelli, ndr ), manifestando il mio disappunto e annunciando che farò qualunque cosa perché loro smettano... dice, ma dovevamo ubbidire al magistrato...». È una furia, Sgarbi. «Gli faccio una conferenza stampa e li faccio saltare tutti questi qua, adesso chiamo il ministro della Difesa».
Sgarbi compone il numero del centralino della presidenza del Consiglio a notte inoltrata. «Intento nella sua azione di influenzare le indagini – scrive il gip nell’ordinanza di arresto del 2018 per due membri della Fondazione – chiede di parlare col ministro della Difesa». Il giorno dopo riceve questo sms: «È stato cercato alle ore 17.05 dal ministro Roberta Pinotti». Il successivo 4 luglio Sgarbi racconta a un gallerista: «Ho parlato col ministro, gli ho detto questa cosa è del tutto inaudita».
La sua rabbia deflagra definitivamente col maresciallo Santino Carta, presidente della Fondazione Alferano. «Carabinieri ladri! Io non voglio più avere niente a che fare con voi, adesso vi massacro... Quando ho parlato con Franceschini (Dario, allora ministro della Cultura, ndr ) mi ha detto, ma sai, loro devono eseguire un ordine... e no, è il contrario, il povero magistrato ha agito sulla base delle vostre indagini». Contattato da Repubblica, Sgarbi dichiara: «Sì, ho chiamato Pinotti, Gallitelli e prima il generale Mossa, che guidava il Comando tutela patrimonio. Ero indignato, perché hanno messo in dubbio la mia competenza, senza neanche interrogarmi. Non era un tentativo di bloccare l’indagine, ma considero quei pm degli autentici fuorilegge».