il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2021
Le mandibole del potere, tra filetto, cafonal e favori
Quando era di buon umore un mio amico produttore cinematografico diceva che con i politici non c’è mai da preoccuparsi troppo: “Basta agitare un pezzo di filetto e arrivano tutti di corsa”. Sembra antipolitica e invece è scienza della nutrizione. Ne fa fede l’ultimo vivandiere del potere romano, Fabrizio Centofanti imprenditore, che ai magistrati di Perugia ha appena confessato: “Credo di avere corrisposto tra i 7 e gli 8 mila euro l’anno in cene a favore di Palamara, dal 2014 al 2018, cioè fino al mio arresto”. Quarantamila euro, mal contati, in sughi, braciole, gamberoni. Luca Palamara è il notevole magistrato radiato dalla magistratura che oggi fa la morale ai magistrati e alla magistratura dopo anni in cui da presidente dell’Associazione nazionale magistrati, non faceva il magistrato, ma il politico, distribuendo incarichi e promozioni tra le correnti. E cioè coltivando il malanno che sta uccidendo politica e magistratura: il cancro della raccomandazione con menu pagato.
Palamara, ennesimo eroe della forchetta. Con mandibola proporzionata a un potere che fino a ieri appariva minacciosamente pervasivo e oggi solo patetico. Bastava guardarlo a occhio nudo, diranno gli specialisti del poi. In realtà se ne accorse (inascoltato) il solo Francesco Cossiga, che nell’anno 2008 lo insolentì in una imperdibile e profetica diretta televisiva, davanti a una esterrefatta Maria Latella: “Lei non ha la faccia intelligente. Lei non capisce nulla di diritto. Lei ha un nome che ricorda l’ottimo tonno che si chiama Palmera. Lei ha la faccia da tonno. È offensivo? Mi quereli!”
Palamara non lo querelò. Masticò amaro. Deglutì le offese. E accontentandosi della fortuna di chiamarsi Palamara e non Palmera, si premiò con una cena. Racconta Centofanti: “Ero lo sponsor della sua attività politica correntizia”. D’estate gli pagava gli alberghi alle Baleari, a Madonna di Campiglio, a San Casciano. Nelle altre stagioni i ristoranti romani: dagli antipasti caldi all’ammazzacaffè. Pagava le cene anche quando lui che le offriva non c’era. In almeno tre ristoranti – il San Lorenzo, da Tullio, il Majestic – i titolari erano istruiti da Centofanti: “Sapevano che ogni qual volta si presentava Palamara, il conto doveva essere a mio carico”. Fatturava le cene a fine mese, come si fa coi fornitori, anche se era lui a fornire. E Palamara a portare il tovagliolo. Sembra di riascoltare quell’altro imprenditore Pierluigi Daccò (stavolta di conio lombardo) che per anni ha avuto sul groppone lo stomaco e le vacanze di Roberto Formigoni, all’epoca governatore celeste della Regione Lombardia. Oggi eroe del vitalizio compassionevole. Gli pagava pranzi e cene “vuoi da Sadler, vuoi da Cracco, da Santini, da Aimo e Nadia”, tutti chef stellati milanesi. “Eravamo così amici – dirà Dacò ai magistrati – che Formigoni veniva a pranzare da me a ogni Natale”. Come i re magi.
Veder mangiare il Formigoni “era una gioia per gli occhi”, scrisse Carla Vites, la moglie di un altro campione di Comunione e liberazione, l’ex assessore alla Sanità lombarda Antonio Simone, all’epoca carcerato, in una lettera pubblicata dal Corriere, aprile 2012. “Robertino si divertiva tanto”. E lei se lo ricordava “mentre in Costa Smeralda seguiva Daccò come un cagnolino al guinzaglio”. Per andare dove? Alla tavola delle aragoste gratis, naturalmente.
Il sapiente Filippo Ceccarelli ha pubblicato un mirabile compendio di questa eterna fame del potere, Lo stomaco della Repubblica, che narra le molte peripezie del cibo coniugato alla politica, il suo valore di risorsa primordiale, merce di scambio, omaggio devozionale, premio, tangente simbolica come un inchino e insieme risorsa calorica gradevole come una pernice al forno. Dall’autentico “Partito della Forchetta”, anno 1953, che prometteva la felicità “di una bistecca al giorno” per gli italiani ancora affamati, con slogan adeguato: “La vita è una vitella”. Passando per le mozzarelle di Mastella, la crostata di Gianni Letta, le salse francesi della compianta Maria Angiolillo. Fino alla sinistra che sventatamente transitò da Marx a Vissani, il cuoco, credendosi moderna. E il povero D’Alema in piena trance da capotavola che in tv versava il vino rosso nel risotto, credendosi uno chef.
Ancora un attimo e siamo alle cene di Silvio Berlusconi ad Arcore. Che ai tempi d’oro riempiva il piatto del suo Bettino in cambio della reciproca, disinteressata amicizia, scambiandosi regali da nulla, orologini, conti esteri, leggi sulle frequenze, mentre il cuoco Michele portava il suo micidiale risotto tricolore. E che nei tempi cupi del declino (anche) sentimentale dell’arcoriano, diventeranno le cene eleganti dell’anziano miliardario che offre insalate dietetiche e barzellette a batterie di ragazzine per addentare un po’ della loro giovinezza.
Evolve il millennio con le cene fiorentine di Matteo Renzi indagate dalla Corte dei Conti. Le cene con massaggio offerte da Diego Anemone a Guido Bertolaso. Le spese taroccate delle assemblee regionali, le mille grigliate travestite da convegni. Le mascelle spalancate nei Cafonal di Dagospia e negli scatti iperrealisti del grande Umberto Pizzi. “Siamo carne da cannellone”, diceva Francesco Storace, vecchio professionista del banchetto politico, dove si addensa la calca. Tutti sospettando, tra una gomitata e l’altra, che a forza di mangiare, finiranno mangiati. Ma non ora, non qui, non sino al prossimo filetto.