Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  giugno 15 Martedì calendario

Il nuovo libro di Dacia Maraini


Lo sguardo azzurro e il sorriso generoso sembrano dei punti luce che con fermezza guidano la vita lunga e densa di Dacia Maraini. L’esperienza nel campo di concentramento in Giappone durante la Seconda guerra mondiale, l’esordio letterario difficile con il romanzo La vacanza (nel 1962 era troppo giovane e troppo bella per essere presa sul serio), un aborto spontaneo, tante battaglie per i diritti civili. E così oggi, su una distanza di 84 anni, l’impegno della scrittrice assume contorni ancora più nitidi proprio perché tessuto con la sua scrittura e la sua stessa vita. La raccolta di interventi che Rizzoli pubblica con il titolo Una rivoluzione gentile. Riflessioni su un Paese che cambia (Rizzoli) è un documento interessante perché riunisce, come una costellazione, i temi cari a Maraini: la dignità delle donne, il rifiuto di ogni forma di violenza, il diritto alla difesa da parte dei bambini, la biologia assurda delle guerre, la salvaguardia dell’ambiente.
Sono riflessioni brevi (molte nate dalla rubrica sul «Corriere della Sera», «Il sale sulla coda») ma vibranti proprio perché esposte con una semplicità luminosa, il vero punto d’approdo di ogni scrittore. Questo potrebbe essere il primo anello di congiunzione tra narrativa e saggistica: in tutti i romanzi di Maraini il male si presenta nella sua più lineare elementarità (a volte sotto le spoglie di una banalità harendtiana) e così anche in questi scritti i grandi temi come il femminicidio, le mutilazioni genitali, la pandemia o i conflitti acquistano potenza narrativa proprio grazie ad una lingua disadorna, che evita sia la retorica che l’iperbole. Ma è anche priva di quella fitta nebbia ideologica che avvolge gli scritti di molti della sua generazione. Così la storia di Agitu Gudeta (la donna etiope che allevava capre in Trentino e che è stata uccisa da un suo dipendente, reo confesso) si materializza nella sua crudezza più animale, frutto di una mancata educazione che non accetta il successo imprenditoriale di una donna allegra e generosa – e per di più «straniera».
Il nucleo più importante di questi interventi riguarda «la condizione della donna» e fa un certo effetto ammettere che tuttora questa espressione – retaggio degli anni Sessanta – sia ancora la più efficace per circoscrivere un’indagine. Sì, perché, osserva Maraini, siamo ancora qui a discutere dell’aborto e della procreazione assistita, dei diritti delle coppie omosessuali e della violenza. La scrittrice prende posizione. Per esempio, sull’aborto, è molto chiara: è «favorevole alla legalizzazione per togliere la pratica dalla clandestinità, ma contraria a farne una bandiera. L’aborto non può essere una soluzione. (...) pensare che sia l’unica risposta a una gravidanza non voluta, non mi convince». C’è una certa forza nelle opinioni di Maraini, perché non sanno mai di conformismo compiaciuto, anzi. Proprio sulla materia delicatissima dell’interruzione di gravidanza, la scrittrice ribadisce una postilla per molti scomoda: interrompere un progetto di vita è sempre doloroso per una donna. Questo incedere asimmetrico rispetto al pensiero dominante accompagna anche altre riflessioni, per esempio quelle sul corpo delle donne. Sulla sua vulnerabilità sezionata, analizzata (giudicata?) da tutti.
E affronta il tema delle non più giovani che vengono ingannate in rete da persone senza scrupoli nascoste dietro un finto profilo, nato per sfruttare un bisogno d’amore che il tempo ha reso più urgente, più fragile. Perché il pensiero dominante impone la durezza del «mettersi l’animo in pace a una certa età». Ma una scrittrice ha il dovere di deviare, di affrontare qualcosa di più magmatico e controcorrente: si ha diritto all’amore, a qualsiasi età e con qualsiasi corpo. C’è soprattutto umanità in queste vicende che Maraini ha scelto per i commenti e le analisi. Non si tratta di pescare soltanto nel gruppo dei più deboli o delle cosiddette «minoranze», ma di innescare quel particolare intuito che solo gli scrittori conoscono e andare a cercare nelle pieghe della storia quotidiana. Tra le cose che ci riguardano tutti e tutte. Come il sostegno alle donne che lavorano («Mia proposta: obbligare per legge qualsiasi azienda, da quelle pubbliche a quelle private, a fornirsi di asili nido»). Come i rapporti quotidiani («Una forma di resistenza alla guerra annunciata può e deve iniziare proprio dal linguaggio. La riscoperta di parole come creanza, urbanità, cortesia, affidabilità, comprensione, tolleranza»). Come i figli, i compagni e le compagne, i genitori anziani.
Ma anche quando Maraini affronta temi più ampi come le guerre, i migranti e il cambiamento climatico, non si ha la sensazione di qualcosa di distante o che non ci riguardi. Anzi. Ecco l’altro cardine di questa «rivoluzione gentile», che forse spiega anche il titolo del libro: ogni cosa, dalla più piccola – di quelle «da cortile» – fino alle grandi, sono affare nostro, richiedono il nostro impegno. E pazienza se qualche commentatore pensoso alzerà il sopracciglio quando Maraini invita alla «buona creanza». Perché leggendo questi interventi come sottili anelli di una catena, affiorerà un tema gigantesco, imprevedibile e irrisolto: la libertà. È l’interrogativo sulla libertà individuale che lega la storia di Agitu Gudeta a quella di una Miss Italia che decide di mettere in mostra il corpo; o a quella di una giovanissima donna che accetta una dose fatale di eroina; o a quella di un uomo che ha scelto di migrare; o a quella di una ventenne che scende in piazza per l’ambiente. Scrive Maraini: «Qualsiasi libertà è una forma di potere». E colpisce l’episodio dell’adolescente che, in un colloquio con l’autrice, rivendica la libertà di odiare, perché la scrittrice deve pazientemente smontare questa convinzione ricordando che sì, siamo liberi, ma anche che l’odio è un sentimento imponderabile.
Possiamo dunque leggere questa raccolta come un romanzo sulla libertà, un romanzo mai finito, che forse inizia addirittura da Marianna Ucria o da Colomba. E che proseguirà nei prossimi anni.