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 2021  giugno 11 Venerdì calendario

Sandro Veronesi e il match di tennis lungo tre giorni

«E intanto loro giocavano ». C’era un mondo là fuori, crisi internazionali in divenire, l’Italia campione del mondo che si faceva diseredare, l’eterno mugugno della nostra politica. E intanto John Isner e Nicolas Mahut giocavano sul campo 18 di Wimbledon, e sembrava non finisse mai, e in fondo speravamo che durasse per sempre. «Divenne la partita che conteneva altri eventi, e al tempo stesso li inghiottiva. In quei tre giorni, non si parlava d’altro, ricevevo messaggi solo su questo, anche da amici che nulla sapevano di tennis. Eravamo vittime felici di un sortilegio, che moltiplicava l’effetto ipnotico di questo sport». Anche Sandro Veronesi è prigioniero dell’incantesimo. Prima dei treni allegri, dei B52, del Caos calmo, del Colibrì e dei due premi Strega, è stato un adolescente di buone promesse, tesserato del circolo Etruria Prato. E da allora non ha più smesso di sperare in una seconda di servizio migliore. Ma soprattutto, ed è il segno distintivo di una schiavitù che permette di riconoscersi tra simili, non spegne mai la tv quando sente quel rumore ritmico, lo schiocco della pallina.

«L’essenza diabolica di questo sport è nel suo potere ipnotico. Per capire il tennis, devi essere in suo potere, alla sua mercé. Devi accettare tutto, dalla visione di un match tra due oscuri terraioli sudamericani al primo turno di torneo femminile sulle Ande. Solo così arriverai a comprendere». Era dunque inevitabile che per raccontare il tennis con il primo podcast della sua vita, Veronesi partisse da quella specie di sortilegio che fu il match più lungo della storia, 11 ore e 5 minuti, 980 punti totali, 113 aces dell’americano, 103 del francese, e una lista di statistiche impazzite che mai più si ripeteranno. Gravity: la partita che non finiva mai è fatto da 4 episodi di 25 minuti che contengono il tempo che si ferma a Wimbledon e la storia che invece va avanti.
Seguirà un altro progetto, una sorta di biografia in voce di Jannik Sinner, il predestinato che stavamo aspettando da 50 anni almeno. Perché in Italia funziona così, conta solo se vinci o vincerai. Il tennis non è più uno sport di nicchia. Purtroppo, o per fortuna. «Dobbiamo farcene una ragione. Amiamo giocatori sconosciuti, che seguiamo e alleviamo dal nostro divano, fin dalle loro prime partite da sconosciuti. Poi diventano famosi e ce li portano via. Tutto sommato, non è un male».
Il tennis italiano come lo sci Anni 80?
«Sinner può essere l’equivalente di Alberto Tomba. Ma non è la stessa cosa. Perché ne abbiamo tanti, di giocatori forti. Il paragone giusto è con il decennio precedente, la Valanga azzurra. Lo sci divenne uno dei pochi sport in diretta sulla Rai. All’improvviso diventammo un popolo di montagna, tutti invasati di sci e sciolina».
Erano anche i tempi dei fine settimana in attesa della finale di Coppa Davis? 
«Era una cosa più di nicchia, che non trasformò il tennis in un fenomeno collettivo. Comunque una piccola gloria nazionale, un gioco individualista che cresceva con il concetto di squadra. E ormai sono passati 40 anni. La Davis è stata rovinata in nome di una assurda modernità».
Cambiare ogni tanto non è salutare? 
«Nel tennis non si sa ancora perché il punteggio passa da 15 a 30 e poi a 40 invece che 45. Il tennis è uno sport di misteri, che lui stesso custodisce con una certa gelosia. Arrivo a capire che per impedire il ripetersi di partite leggendarie ma sfinenti come Isner-Mahut si cambino le regole. Ma il tennis poi ti presenta il conto».
Sotto quale forma? 
«La prima vittima del tie-break al 5° set a Wimbledon è stata Roger Federer, il Favorito degli Dei, che ha perso in modo immeritato una finale, forse la sua ultima, contro Novak Djokovic. Se non è nemesi questa. Come un messaggio: basta così».
E invece? 
«Leggo di set con 4 games, abolizione della seconda palla di servizio, tutte cose inventate per la tivù. Ecco, allora per quello c’è il padel. Il tennis è un’altra cosa».
Quell’Isner-Mahut fu vero tennis? 
«Ne fu la negazione e l’essenza al tempo stesso. L’ho scelta per questo. Tra il 10-9 del 5° set fino al 33-32 e due match point per Isner, non accadde nulla. Ma più passava il tempo più diventava una cosa abnorme. Nessuna partita è mai cominciata con qualche centinaio di spettatori per finire seguita da milioni in tutto il mondo. Io stesso non guardai Italia-Slovacchia, partita decisiva del nostro sciagurato Mondiale di calcio in Sudafrica».
A parte la dilatazione del tempo, cosa la rende speciale?
«Per me, esiste un punto oltre il quale la quantità diventa qualità. Poi c’è l’incantesimo, appunto. Sull’erba, i rumori si fanno più felpati, l’effetto ipnotico del tennis si amplifica, diventa una sirena irresistibile. Penso a Gigi Buffon, che costretto in albergo da un infortunio, non riusciva a staccarsi dallo schermo. Oppure a Giuseppe Lavazza, che guardando quella vicenda infinita si innamorò del tennis e di Wimbledon. Non era Federer-Djokovic, non si stava giocando tennis eccelso. Fu un evento sublime e disperato, era chiaro anche che il vincitore sarebbe stato spazzato via il giorno seguente. Infatti, il giorno dopo Isner fu battuto in uno dei match più veloci della storia. Fu una prova estrema».
Pure lei tifò perché durasse per sempre? 
«Come tutti, credo. Il 24 giugno, terzo giorno del match, era prevista la visita della regina Elisabetta, che non andava a Wimbledon da 33 anni. Per lei c’era il posto d’onore nel Royal Box del Centrale, dove era in programma Murray-Nieminen. Ma sul campo 18 era in corso la partita di cui tutto il mondo stava parlando».
Avrebbero potuto spostarla sul Centrale? 
«Ci pensarono a lungo. E nel podcast Giorgio Di Palermo, membro del board Atp, racconta che si sarebbe potuto fare. Ma si pose un problema. Se quei due non finiscono neppure oggi, che ne sarà della regina? La leggenda in divenire di quel match era già nata, tutti ne erano rapiti, al punto da condizionare ogni altra decisione. Quando un episodio sportivo eccede sé stesso, ecco che diventa una sorta di contenitore di altre storie, di altri ricordi».
Lo sport scandisce le tappe della vita. 
«È così. Abbiamo bisogno di ancorare la nostra memoria a punti fermi. A Prato passo spesso da un posto del quale ho un ricordo insulso: mia madre che a me bambino indica il fondo di una strada. Quello è il posto dove andrai a scuola, mi disse. Oggi ci sono una saracinesca e un garage. Ma ci ripenso sempre, ogni volta che ci passo davanti. I genitori e i primi pezzi di vita con loro sono il primo ancoraggio alla nostra storia individuale. Dopo, c’è lo sport, con i suoi eventi memorabili. E il tennis di occasioni ne offre tante».
Federer a parte, i suoi preferiti? 
«Sono vecchio stile. Tutti i giocatori con il rovescio a una mano. Wawrinka, Shapovalov. Non che disprezzi i bimani, il mio maestro di tennis ha un bel rovescio a due mani. Ma forse in questa preferenza che so non essere originale, conta molto l’effetto madeleine, ci ricorda la gioventù, quando si giocava in altro modo».
Il suo piacere proibito? 
«Amo molto David Goffin, il piccolo belga. Per come si muove in campo, per come cerca la palla con i piedi. Per la sua lotta contro evidenti limiti fisici. E non ha mai smesso di crederci, come invece ha fatto Richard Gasquet, che si è arreso troppo presto allo strapotere fisico degli altri. Goffin è un piccolo maestro».
Cosa non le piace? 
«Le urla. Le proibirei. Se dall’altra parte del campo mi trovassi Lorenzo Sonego, peraltro bel giocatore, che urla in quel modo a ogni colpo, salterei la rete e gli darei una racchettata in testa».
È il tennis moderno, bellezza.
«Ma infatti non puoi farci niente. Tutte queste manie e tic che fanno somigliare i giocatori ad automi nevrotici, ne sono una conseguenza. Mi spiegava un coach che la moda del cappellino all’incontrario, che io detesto, deriva dal fatto che se non sentono le fibbie che stringono la fronte, è come se gli mancasse qualcosa».
Non sono indizi di qualcos’altro?
«Forse della sofferenza, dello sforzo che ci vuole. Ma sono anche sequenze costruite, per cancellare quel che è appena stato, azzerare tutto ogni volta. Le loro manie non sono cose da matti. Nadal che si gratta il sedere e poi la faccia, e poi ancora i capelli e poi si tocca le guance: è un modo per prendere possesso del proprio corpo e della propria mente. Lo fa per questo».
Chi è il colibrì del tennis? 
«Non il mio Goffin, che invece è un usignolo, canta sempre. Quello che invece sta lì fino alla fine per la tenacia, per la voglia di non mollare nonostante le avversità, è l’argentino Diego Schwartzman».
Il più grande di sempre?
«Nessuno può dirlo. So che Roger morirà nella bellezza. Andrà incontro al suo destino con la bellezza del suo tennis, che nessun altro ha mai avuto».
Lei conosce un certo John McEnroe? 
«Mio coetaneo. Ma il tennis classico, cominciato con le racchette di legno, non ha mai prodotto uno stilista come Roger. Certo, Tom Okker, Stan Smith, Adriano Panatta, distendevano il corpo e trovavano come per incanto il tennis. Ma a ognuno di loro mancava un pezzo. McEnroe poi era la proiezione di quel che volevo essere. Ma aveva gesti strani, irripetibili e inimitabili. Era McEnroe, non il tennis».
Chi ama Federer può amare Sinner? 
«Finché avrà punti deboli, e ne ha molti a cominciare dal servizio, lo seguirò e lo amerò. E lo farei anche se non fosse italiano, con la sua aria candida, le sue gambe come grissini e il fisico dinoccolato molto Davide contro Golia. Quando diverrà una macchina, questo è il suo destino, allora mi sentirò libero di preferirgli uno come Lorenzo Musetti: più gioia per l’occhio».
Cosa la intriga di lui? 
«Il fatto di essere cresciuto in bilico tra due mondi, non solo geografici. Sinner era un campioncino di sci, che invece ha deciso di giocare a tennis. Spero che non lo abbia fatto per soldi, ma per l’ambizione di venire ricordato. Pauli Accola ha vinto un’Olimpiade e una Coppa del mondo di sci, ma fuori dalla Svizzera pochi sanno chi sia. Nel tennis, sport transnazionale se mai ne esiste uno, il grande giocatore rimane comunque nella memoria».
Puntare così tanto su un solo giocatore può essere controproducente? 
«C’è nell’aria un’ossessione-Sinner che rischia di far danni. Per fortuna, ogni volta c’è un italiano che gli ruba la scena e gli toglie pressione. Nasceranno rivalità da gestire molto bene. Perché si parla così poco di Matteo Berrettini? Non c’è una vera ragione. Se non che Sinner è il predestinato che diventerà protagonista dei nostri sogni. Ma non potrà fare come Tomba, che ogni tanto mollava. Dietro ci sono gli altri. Beati noi, lì sul divano a guardarli».