il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2021
Il “gioco dell’Opa” frega i pesci piccoli
Il gioco dell’Opa a Piazza Affari è cambiato. Quando furono introdotte nel ’98, le “Offerte pubbliche di acquisto” sulle azioni che compongono il capitale erano mirate a rendere contendibili le società quotate. Ma da anni ormai hanno invece quasi sempre lo scopo di raccogliere tutte le azioni e cancellare le aziende dalla Borsa, il cosiddetto “delisting”. Tutte le 10 operazioni lanciate da inizio anno a Milano puntano a levare dal mercato le società destinatarie, mentre l’anno scorso questa è stata la ragione di 10 delle 14 Opa. Il trend riguarda tutti i settori e società di ogni dimensione e si gioca spesso sulla pelle degli azionisti di minoranza. Da inizio 2020 tra le operazioni svettano quelle di Generali su Cattolica, Asterion su Retelit, Intesa Sanpaolo su Ubi Banca e Crédit Agricole Italia su Creval, Romulus and Remus Investments su As Roma (fallita, però, e il magnate Friedkin ora controlla l’86,8% della squadra), Giano Holding su Gedi, società editrice di Repubblica e L’Espresso.
Secondo uno studio della Consob sulle Opa lanciate in Italia dal 2007 al 2019, su 174 offerte azionarie 109 (il 60,6%) prevedevano il delisting della società target come finalità dell’azionista di controllo o come obiettivo “associato” dei nuovi soci di riferimento. Dal 2015 al 2019 l’incidenza dei delisting è cresciuta dal 50 al 90% delle offerte totali, è aumentata la dimensione media delle società revocate e le cancellazioni sono scattate anche con i listini stabili o al rialzo. Ma perché il delisting è diventato la regola? Tra le cause ci sono la volontà degli azionisti di maggioranza di riprendersi le società quotate pagandole meno dei fondi raccolti con la quotazione – evitando gli obblighi di trasparenza e comunicazione -, la perdita di rappresentatività di Borsa italiana rispetto a quelle estere e la diffusione dei fondi di private equity, strumenti di investimento che raggruppano pochi soggetti con grandi capitali. Quando prestiti e obbligazioni costano poco e le azioni sono in calo, per i fondi di private equity è facile comprare società quotate a debito (i cosiddetti leveraged buy out, Lbo) e toglierle dalla Borsa. C’è anche un fattore tipicamente italiano, la concentrazione del controllo: minore il numero di chi possiede partecipazioni elevate in una società quotata, maggiore è l’impulso a levarla dal listino.
Salvatore Bragantini, manager ed ex commissario Consob, spiega che “il fenomeno dei delisting attraverso le Opa ha cause diverse. Innanzitutto tutte le Borse europee soffrono della mancanza di un vero mercato integrato per le differenze sul diritto societario e fallimentare. In secondo luogo, i prezzi pagati fuori Borsa dal private equity per le quote di maggioranza sono superiori a quelli pagati a Piazza Affari e ciò crea un incentivo a delistare le imprese alleandosi ai loro azionisti di controllo, perché la gestione libera dalle norme e dai condizionamenti previsti sul mercato borsistico consente al capitale investito di ottenere rendimenti superiori. Sono tendenze mondiali che coinvolgono anche Usa e Regno Unito. C’è poi una questione di fondo: le medie imprese italiane interessanti per gli investitori istituzionali non sono abbastanza numerose, le altre non hanno un incentivo reale alla quotazione perché non riscuotono abbastanza interesse. Tra i fattori regolamentari, la fine della concentrazione degli scambi in Borsa decisa dalla direttiva Mifid non è stata determinante. mentre ha avuto effetti maggiori la norma per evitare conflitti di interesse tra la ricerca sui titoli azionari e l’attività di consulenza di investimento che ha colpito maggiormente le azioni a minore capitalizzazione”, conclude Bragantini.
Anche se non sempre i delisting vanno a segno, non sempre gli azionisti interessati a togliere dalla Borsa una società rinunciano ai loro progetti. Lo dimostra l’Opa da 3,5 milioni lanciata su Poligrafica San Faustino per delistarla dalla Campi Srl della famiglia Frigoli, che detiene il 48,1% (ma grazie al voto maggiorato conta per il 64,9% del capitale votante) di Psf. L’offerta di gennaio, che pagava 7,03 euro per azione (all’ingresso in Borsa nell’ottobre 1999 i titoli costavano 37 euro, nel 2000 avevano raggiunto i 200) con un premio del 15% sul listino, è fallita perché ha raccolto appena 4.962 azioni, lo 0,4%. L’operazione si pagava da sé grazie ai fondi propri di Psf: a fine marzo la posizione finanziaria netta consolidata era positiva per 5,4 milioni, gli utili non distribuiti erano 3 milioni. Nessun problema: i Frigoli hanno indetto per il 16 luglio un’assemblea di Psf per decretarne la fusione inversa con Campi. Offrono ancora meno, 6,96 euro per azione, mentre gli azionisti di minoranza calcolano il valore in 34 euro. I risparmiatori promettono battaglia, ma lo scontro è impari. Se l’Opa è cambiata, la morale resta la stessa: il pesce grosso mangia i piccoli.