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 2021  giugno 14 Lunedì calendario

Cosa resta di Netanyahu


Benjamin Netanyahu ha molti detrattori, in patria e all’estero. Eppure l’eredità che lascia a Israele, cedendo il comando con la palma di premier più longevo nella storia dello Stato ebraico, è duplice. Da un lato è stato l’artefice della modernizzazione economica e il garante della sicurezza nazionale, culminata negli accordi di Abramo che hanno allargato la pace con gli arabi agli Emirati, al Bahrein, al Marocco. Dall’altro in quindici anni di governo non ha risolto la questione palestinese, fonte di ricorrenti conflitti, come testimonia il recente scambio di razzi e missili con Gaza, e dilemma che divora entrambi i popoli da sette decenni. A farlo cadere, in modo simile a Silvio Berlusconi, ha contribuito una lunga serie di scandali e procedimenti giudiziari che potrebbero vederlo condannato per frode e corruzione. Non è escluso che possa prendersi la rivincita, perché l’eterogenea coalizione che lo sostituisce mette insieme destra, centro e sinistra, ebrei religiosi e arabi musulmani, per raggiungere una maggioranza di un solo seggio: e sarà lui a guidare l’opposizione alla testa del partito di maggioranza relativa. Ma se a fargli mantenere il potere non è servito nemmeno vincere la sfida al Covid, facendo uscire Israele dalla pandemia prima di ogni altra nazione, probabilmente per gli israeliani è tempo di avere un nuovo leader: il suo ex-capo di gabinetto Naftali Bennett, il moderato laico Yair Lapid designato a dargli il cambio fra due anni o in futuro qualcun altro. Nei suoi 71 anni Bibi, come lo chiamano i suoi seguaci, ha dimostrato grandi capacità e terribili difetti. Fra le capacità, è stato un ex-commando di Sayeret Matkal, le forze speciali israeliane, con cui fu ferito in battaglia (e nelle quali suo fratello Yonatan perse la vita durante il raid per liberare gli ostaggi a Entebbe); un brillante studente al Mit e ad Harvard negli Stati Uniti; vice-ambasciatore a Washington e ambasciatore all’Onu, diventando ospite fisso dei talk show televisivi Usa in virtù di un perfetto accento americano; ministro degli Esteri, della Difesa e delle Finanze, il portafoglio da cui lanciò le privatizzazioni e le riforme che hanno fatto di Israele una potenza high-tech. Tra i difetti va ricordato che diventò primo ministro per la prima volta nel 1996, dopo l’assassinio del suo predecessore Yitzhak Rabin da parte di un estremista ebraico contrario al processo di pace: quel Rabin che gli oppositori interni disegnavano con la kefiah palestinese in testa o come ufficiale nazista, ai comizi in cui Netanyahu lo descriveva come un traditore. Vizio che non ha perso, se il capo dello Shin Beth, l’antiterrorismo israeliano, gli ha fatto visita nei giorni scorsi esortandolo a calmare la retorica contro Bennett, nel timore che anche quest’ultimo finisse nel mirino di un fanatico. Ciononostante, Netanyahu non ha mai rifiutato del tutto l’idea della pace con i palestinesi: ritirò le truppe da Hebron, la città della tomba di Abramo; strinse (come Rabin) la mano ad Arafat, negoziando gli accordi di Wye nel 1998; ha accettato l’idea di uno stato palestinese, sia pure demilitarizzato e senza Gerusalemme est. Paradossalmente, un suo errore colossale, l’operazione fallita per uccidere il capo di Hamas in Giordania, gli permetteva finora di non fare concessioni: per rimediare Netanyahu fu costretto a rilasciare lo sceicco Yassin, leader spirituale di Hamas, il cui ritorno a Gaza ha messo la striscia in mano a un gruppo riconosciuto come organizzazione terrorista da Washington e dalla Ue, dividendo il fronte palestinese.