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 2021  giugno 14 Lunedì calendario

Il genocidio lituano


RUMSISKES (LITUANIA) – «Vennero a prenderci di notte. Tutta la nostra famiglia si era riunita per festeggiare l’ultimo giorno di scuola. Fu l’ultimo incontro. Il 14 giugno i soldati sovietici invasero la nostra fattoria e ci portarono in stazione per caricarci su un carro bestiame. Come animali destinati al macello». Irena Saulute Valaityte-Spakauskiene accarezza i dolorosi ricordi con le dita nodose deformate dall’artrite. Quella notte di ottant’anni fa, appena una settimana prima dell’invasione nazista, fu perpetrato il primo pogrom, il prologo di una serie di deportazioni, esecuzioni e immigrazioni forzate che, fino alla morte di Stalin, avrebbero portato la Lituania a perdere un milione di abitanti, un terzo della popolazione. Un destino comune anche agli altri Paesi baltici che oggi commemorano la loro “giornata della memoria”. Una pagina di Storia venuta alla luce solo dopo la caduta della cortina di ferro, una cortina di oppressione e silenzio. E tuttora largamente ignorata, benché i Baltici facciano parte della Ue e della Nato. «Ma che è importante ricordare – ci dice la “lady di ferro lituana”, l’ex presidente Dalia Grybauskaite – perché oggi ai nostri confini abbiamo dittatori che ancora una volta prendono di mira, torturano e uccidono i loro cittadini solo perché la pensano diversamente».
Irena è nata a Kaunas nel 1928 quando la seconda città del Paese era la capitale provvisoria della Lituania indipendente prima che venisse schiacciata da due totalitarismi contrapposti: annessa nel ’40 dall’Urss in seguito al cinico patto con cui Hitler e Stalin si erano divisi l’Europa centrale, poi invasa dalla Germania nazista nel ’41 per ritornare sotto l’occupazione sovietica nel ’44. «La cosiddetta “deportazione di giugno” del ’41 durò quattro giorni. Era stata pianificata da mesi con lo scopo di purgare lo spazio baltico dei membri dell’élite culturale ed economica. Annientandoli, non solo giustiziandoli con un colpo di pistola. L’Nkvd, l’antenato del Kgb, aveva stilato le liste degli elementi “anti-sovietici”: politici, militari, professori, religiosi, ma anche agricoltori, operai e artigiani. Deportarono intere famiglie. Gli uomini, circa 4mila, vennero separati e portati nei campi di concentramento nel territorio di Krasnojarsk, mentre 13.500 donne, bambini e anziani furono portati in Kazakhstan, Altaj, Komi e infine nell’Artico. Fu uno shock. Non c’erano state avvisaglie. La gente non sapeva che cosa l’aspettasse», spiega Kristina Burinskaite, storica del Centro di ricerca sul genocidio e la resistenza di Vilnius ospitato nell’ex sede del Kgb.
Irena ricorda bene lo spaesamento del viaggio di un mese sulle rotaie fino all’Altaj, Siberia occidentale. Circa il 40 per cento dei deportati del 1941 erano bambini sotto i 16 anni come lei, ci spiega Ramuné Driauciunaité guidandoci tra le sale del Museo delle Occupazioni e delle battaglie per la libertà. Nei carri bestiame non c’era cibo eccetto un po’ d’acqua e una brodaglia imbevibile. Non c’era aria per respirare, solo feritoie chiuse da sbarre e un buco come bagno. «Entra qui e prova a immaginare», dice Irena conducendoci dentro un vagone bestiame arenato tra le betulle del Museo etnografico all’aria aperta di Rumsiskes, a circa 25 chilometri da Kaunas che, a 92 anni, Irena percorre ogni giorno in bus e a piedi per guidare gli avventori tra le mostre e la sua memoria. Oltre la metà di loro, racconta irrequieta, saltellando da un angolo all’altro, morì subito. I corpi di chi non ce la faceva venivano gettati lungo i binari. Prima le donne incinte e i bambini. Poi i vecchi.
Non ci fu quasi il tempo di abituarsi alle fatiche del lavoro forzato e al duro clima nell’Altaj, alla fame e allo scorbuto, che, un anno dopo, i pochi sopravvissuti furono nuovamente ammassati su carri bestiame. Stavolta la destinazione era Trovimovsk, una delle tante isole di permafrost sferzate dai venti ed erose dalle tempeste sparse nel delta del fiume Lena che si getta nel Mar di Laptev, Oceano artico, estremo Nord siberiano, uno dei luoghi più terrificanti dell’Arcipelago Gulag. Per molti anni l’unica terra conosciuta per Jonas Markauskas, il “primo figlio di Trofimovsk”. Nacque tra i ghiacci eterni oltre il circolo polare nel 1946. Oggi è il presidente di Laptevieciai, la confraternita degli ex deportati nel mar di Laptev che, benché si assottigli di anno in anno, tiene viva la memoria di quello che definiscono un “genocidio”. «L’Olocausto degli ebrei è stato forse più doloroso del massacro di interi popoli soggiogati dai sovietici? Se tagliassero il mio dito e il tuo dito, uno di noi due soffrirebbe di più? I crimini contro l’umanità non hanno nazionalità».
«Nel Mar di Laptev – prosegue Irena – dovevamo trascinare tronchi pesanti affondando nella neve o pescare con le reti nelle acque gelate. In cambio ottenevamo pochi grammi di pane che dovevamo razionare. E dopo 12 ore di lavoro dovevamo costruire le nostre case con i detriti e i rami che trovavamo sulla spiaggia. Il pavimento era il permafrost, le finestre blocchi di ghiaccio. Avevamo letti a castello di 35 centimetri ciascuno. Ci sono volute due settimane per costruire una yurta come questa», spiega Irena, rannicchiata sull’asse di una replica ricreata a Rumsiskes, intrecciando alla rinfusa i fili di una storia che ha ispirato il bestseller Avevano spento anche la luna di Ruta Septys. «Ma il libro non racconta l’orrore di uscire a cercare qualcosa da bruciare o mangiare o a raccogliere il ghiaccio da trasformare in acqua da bere senza sapere se saresti tornato o saresti morto assiderato. O di vedere tua madre morire di fame, senza che ci fosse nulla che potessi fare. Continuavamo a inciampare nei nostri morti, ma non avevamo la forza di scavare tombe nella terra ghiacciata per seppellirli. E noi eravamo sepolti vivi, ma sognavamo di tornare nella nostra patria e questo sogno ci ha tenuto in vita. Io riuscii a fuggire dopo qualche anno. Altri dovettero attendere la morte di Stalin».
Ma il rimpatrio fu un altro capitolo doloroso. «Non avevamo documenti, né diritti. Ho dovuto nascondermi per otto anni. Senza vestiti, senza scarpe, senza cibo, senza denaro. Col timore di essere catturata a ogni passo dal Kgb. Non sapevo dove andare perché le nostre case erano occupate e i nostri cari non c’erano più». È solo con la perestrojka e l’indipendenza che gli ex deportati sono venuti allo scoperto. «Ora posso finalmente parlare», esulta Irena. «Non lo faccio per costruire un monumento a noi stessi. Racconto la mia storia anche se è come grattare un ferita, per tenere accesa la memoria di chi non ce l’ha fatta, di chi non è potuto diventare grande, innamorarsi, crescere figli. Rivedo ancora le loro facce, anche se non ricordo più i nomi. I corpi gettati fuori dai vagoni. La mia brigata del primo inverno. Il primo bambino che morì di freddo nell’Artico». Oggi gli ex deportati ricevono una pensione. E le loro sofferenze vengono commemorate ogni anno. Ma la giustizia negata brucia. «Per noi non c’è stata una Norimberga», insiste Jonas. Nessuno è stato chiamato a rendere conto di quello che è stato fatto. Nessuno ha mai chiesto perdono».