La Stampa, 14 giugno 2021
Ascesa e caduta di Bibi Netanyahu
Sto scrivendo a poche ore di distanza dall’annuncio ufficiale del nuovo governo, e la sensazione principale che provo è di apprensione. Incredulità. Circospezione. Sospetto. Diffidenza. Sta accadendo sul serio? Benjamin Netanyahu è stato Primo ministro di Israele per quindici anni, dodici dei quali consecutivi, dal 2009 a oggi, e soprattutto gli ultimi due delle quattro campagne elettorali ci hanno insegnato che farà di tutto per restare al potere. Si aggrapperà alla sua poltrona di Primo ministro con le unghie, fino a esserne allontanato di peso. Ricorrerà a qualsiasi stratagemma da manuale per scongiurare ciò che per lui è inimmaginabile: che qualcun altro guidi questo Paese.
Oggi dovremmo essere onesti e menzionare gli aspetti positivi dei governi Netanyahu. Prima di tutto, è stato un Primo ministro attento e restio, quando si trattava di interventi militari e guerre. Durante tutto il lungo periodo del suo mandato, nella nostra regione non c’è stata una guerra di grande portata, e poter dire una cosa del genere riguardo 15 anni della storia di Israele è già dire molto. In secondo luogo, ha contribuito a contrastare in modo tempestivo il coronavirus in Israele, grazie alle pressioni che ha esercitato assai presto sull’amministratore delegato di Pfizer affinché rifornisse il Paese di milioni di dosi di vaccino. In terzo luogo, gli accordi di pace che ha firmato con numerosi Paesi arabi del Golfo sono stati passi avanti importanti e decisivi per integrare Israele in una regione a maggioranza musulmana. Quarto, i suoi governi hanno varato riforme che hanno stabilizzato e aperto l’economia, tra cui un investimento senza precedenti in una società araba.
Certo, si possono avere riserve su tutti e quattro i punti elencati: non c’è stata una guerra a tutto campo, ma si sono susseguite grandi e sanguinose operazioni belliche, oltre a un’occupazione di cui non si intravede la fine; c’è stata una riluttante gestione iniziale della pandemia da coronavirus, specialmente tra gli ebrei ultraortodossi; non si è fatto nessun passo avanti decisivo nel processo di pace con i palestinesi; e l’anno scorso l’indebitamento del Paese è diventato colossale. Eppure, Bibi qualche merito ce l’ha.
Netanyahu ha una forte personalità, scoppia di energia, lavora sodo, in qualche caso in modo maniacale. Queste caratteristiche avrebbero potuto essere messe al servizio e a beneficio dei cittadini, se solo fosse stata questa la sua priorità numero uno. Purtroppo, con il passare degli anni al potere, questa sua forza è stata messa a servizio soltanto dei suoi traguardi legali e politici.
Vi sono molteplici casi negli ultimi due anni nei quali Bibi non è riuscito a vincere nessuna delle quattro elezioni in modo sufficientemente ampio e decisivo da poter dar vita a un governo operativo, ma rastrellando un numero di voti che bastavano a impedire che si formasse un’alternativa. Così ha lasciato che ogni cosa rimanesse come era, in una sorta di limbo, convocando un’elezione dietro l’altra e sperando ogni volta di ottenere una maggioranza più consistente, fallendo tutte le volte, lasciando nel frattempo il Paese paralizzato, disorganizzato, non amministrato, senza nemmeno un budget che ne garantisse un funzionamento adeguato.
Uno dei primi esempi che affiora alla memoria è quello della crisi dei richiedenti asilo dell’aprile 2018. Bibi annunciò un accordo firmato con l’Unhcr (l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu) che garantiva il trasferimento di 16 mila rifugiati nei Paesi occidentali, tra i quali Canada, Germania e Italia, e l’accoglienza dello stesso numero di rifugiati in Israele. Non si trattava della soluzione perfetta, ma di una risposta alla crisi, una risposta umanitaria. Non più tardi di 24 ore dopo, però, stralciò quell’accordo, a causa delle pressioni delle destre nazionaliste e del suo timore che potessero uscire dal suo governo. Questo suo modo di procedere a zig-zag, di mentire, di gestire i problemi come un dilettante si è deteriorato ancor più da quando l’anno scorso è iniziato il processo contro di lui per corruzione, frode e abuso di fiducia. Paventando il crollo del suo governo, si è piegato e ha ceduto a ogni richiesta dei suoi partner al governo, collocando gli interessi di Israele ben al di sotto della sua sopravvivenza. Per esempio, ha glissato sull’applicazione delle restrizioni di contrasto alla pandemia nelle comunità ultraortodosse, per non inimicarsene i politici.
L’errore più grave di Netanyahu, tuttavia, e quello che in definitiva lo allontanerà dal governo, è quello legato ai suoi tratti caratteriali. La sua autoindulgenza (e quella di sua moglie) gli hanno alienato i favori della popolazione. La sua paranoica diffidenza nei confronti di chiunque aspiri a prendere il suo posto ha allontanato molti politici, comprese le forze più giovani del suo stesso partito, come Gidon Sa’ar e Naftaly Bennet. Le sue menzogne eclatanti e il suo venir meno agli accordi l’hanno isolato, lasciandolo senza nessuno con cui stringere alleanze o trovare un’intesa. La sua tattica consistente nell’istigare e dividere le tribù della società israeliana, alla fine ha portato queste tribù così differenti, talvolta agli antipodi, a unirsi e coalizzarsi compatte dietro un unico comune denominatore: la disperata necessità di destituirlo.
Nel 1999, quando Netanyahu perse le elezioni dopo il suo primo mandato da Primo ministro, lo scrittore Amos Oz disse: «È un po’ come avere un compressore in funzione sotto la tua finestra, che per anni non si spegne mai e all’improvviso tace». Questo si diceva allora, dopo appena tre anni, quindi provate a immaginare come ci sentiamo noi adesso, dopo 12 anni in cui quel compressore ha stremato una nazione intera con il suo fracasso continuo, incessante, da spaccare i timpani. Domani mattina non mi serviranno miracoli. Non mi aspetto che tutti i nostri problemi siano risolti. Non penso che ogni macchia sarà stata lavata. Prima, se non altro, apprezzeremo il silenzio. —