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 2021  giugno 12 Sabato calendario

Intervista ad András Schiff

Unicità e spessore sono due doti evocate con immediatezza dal pianista András Schiff.
Sentendolo suonare si riconoscono subito il suo timbro peculiare, la sua capacità di delineare in modo limpido la struttura del pezzo e la sua autentica saggezza interpretativa. Nato a Budapest nel 1953 e oggi abitante tra le sue case in Svizzera (Basilea), a Londra (è naturalizzato inglese) e sulle colline di Firenze, il leggendario artista ha un approccio alla musica sempre profondo e originale. Il suo Bach è organico e privo di aspetti algidi nel ventaglio di sfumature. Il suo Beethoven ha un vitalismo inesauribile, e András per un lungo periodo ne eseguì l’intero ciclo di sonate in ordine cronologico e in più di venti città. Il suo Bartók è intriso d’Ungheria, come se il campione di raffinatezze Schiff avesse colto intimamente i climi più ancestrali della sua terra, insieme al fraseggio della lingua in cui è cresciuto.
Riflessivo e minuzioso, András è un anti-divo estraneo alla fretta. Quando parla esprime una cortesia "antica". Ama lo humour, e a volte nel suo discorso irrompe una risata esplosiva per freschezza. È ludico e serissimo, colto e affettuoso. Lo spunto della nostra conversazione è l’uscita di un suo disco dedicato a Johannes Brahms (l’etichetta è ECM), che include il Primo e il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra registrati insieme all’Orchestra of the Age of the Enlightenment, esperta nel suonare con strumenti d’epoca.
Ma András, durante l’intervista, vuole innanzitutto protestare sulle difficoltà del presente: «Ho sofferto molto nel lockdown», confessa, «e ho perso un centinaio di concerti. Qualche vantaggio c’è stato, come il poter rimanere a casa a leggere libri. Inoltre ho studiato l’"Arte della Fuga" di Bach. Ma mi sono mancate l’energia e le motivazioni».
Ha fatto concerti in streaming?
«Sì. Ho anche proposto piccoli eventi dal vivo col pubblico distanziato e ho insegnato a Berlino nell’Accademia di Daniel Barenboim. A fine maggio ho suonato nella Wigmore Hall di Londra e dovrei andare in tour in Asia in autunno, ma forse cancellerò per evitare quarantene. Non sono ottimista. Le cose non torneranno più come prima e i teatri continuano ad avere paura. La nota positiva è l’annullamento degli intervalli nei concerti, pause commerciali da cui traeva profitto solo il bar. Una durata di un’ora e un quarto è un ottimo formato musicale, e poiché il pubblico è ridotto si possono organizzare programmi brevi ripetendoli due volte».
Ripercorriamo le sue origini, maestro Schiff: la sua famiglia ebrea ungherese è stata segnata dall’Olocausto.
«I miei genitori persero i loro primi coniugi in circostanze orrende. La prima moglie di mio papà e il loro bambino furono uccisi ad Auschwitz. Il primo marito di mia madre, costretto ai lavori forzati, prese il tifo e morì poiché le baracche in cui tenevano i detenuti malati vennero messe a fuoco. Dopo la guerra mio padre si mise a lavorare come ginecologo e non avrebbe voluto altri figli… Ma nacqui io. La mia infanzia si svolse nel "comunismo del Gulasch". A cinque anni cominciai a prendere lezioni di pianoforte per poi proseguire gli studi all’Accademia Franz Liszt di Budapest con docenti quali Pál Kadosa, Ferenc Rados e il compositore György Kurtág. Ho anche studiato in Inghilterra dove mia zia era fuggita a causa della rivoluzione ungherese del ’56. I compagni di classe mi prendevano in giro in quanto provenivo da un Paese "hungry", cioè affamato (gioco di parole con Hungary, ndr). La svolta giunse quando mi capitò di fare il girapagine per il grande George Malcolm, pianista, organista e clavicembalista inglese. Diventammo amici e m’insegnò molte cose riguardo a Bach, suonando il quale usavo il pedale. Non ci vogliono i piedi per Bach, mi disse, bensì le mani».
Quando scoprì gli strumenti musicali storici, che adesso sembra preferire ai moderni?
«È stata una rivelazione progressiva e ora ne sono innamorato. A Salisburgo ebbi il privilegio di suonare il fortepiano di Mozart, esperienza toccante al massimo. Per incidere le musiche di Brahms appena pubblicate ho utilizzato un pianoforte Blüthner di Lipsia del 1859, strumento in grado di modificare radicalmente la mia percezione del compositore. Il suono è trasparente, non percussivo, differenziato nelle dinamiche e ricco di possibilità armoniche. Assolutamente diverso dal suono brahmsiano grasso e pesante a cui siamo abituati».
Cosa le piace di Brahms?
«Conosceva bene la musica che lo aveva preceduto, dal Rinascimento a Bach e a Händel… Aveva diretto un coro ed esplorato la tradizione della musica sacra. Il secondo movimento del suo Concerto n. 2, che suono nel nuovo disco, potrebbe essere un Requiem scritto dopo il suicidio di Schumann. Parallelamente, come osservò Schönberg, Brahms fu un progressista straordinario. È geniale il suo bilanciamento tra il passato e il futuro della musica».
Come vede la situazione odierna nella sua Ungheria?
«È catastrofica e non voglio più metter piede nel Paese. Viktor Orbán è un brigante furbo e pericoloso che nessuno può sconfiggere. Le elezioni sono ormai vuote di significato. La cosa tremenda è che la maggioranza del popolo è soddisfatta di lui. Mi riferisco alla gente di campagna e dei villaggi, che rappresenta il settanta per cento dei voti. Una massa misera, ineducata e ignorante. Bisognerebbe insegnare la Storia tenendo conto del momento in cui l’Ungheria era vicinissima a Hitler, e lo restò fino al termine della guerra. Gli ungheresi credono di essere sempre vittime di qualcosa: del nazismo, del comunismo, della Comunità Europea. Inoltre è forte e diffuso l’antisemitismo, come in Polonia, ma gli ebrei ungheresi sono assai più numerosi dei polacchi. A Budapest vivono centomila ebrei e la città è piena di sinagoghe trasformate in scuole e sale da concerto».