Robinson, 12 giugno 2021
Riscoprire Giuseppe D’Agata
Ha scritto un romanzo di successo (Il medico della mutua) diventato un film epocale e adottato come testo per creare il Servizio Sanitario Nazionale. Ha sceneggiato un originale televisivo ( Il segno del comando) da 15 milioni di spettatori ogni domenica sera. Ha condiviso un ufficio e molti whisky e sigarette con Andrea Camilleri. Ha passato una fine d’anno a Mosca con Eugenij Evstusenko, regalando bottiglie di vino a tutte le coppie che incontravano. Ha cantato in coro nelle piazze russe con Umberto Eco. Ha suonato la batteria, musica jazz. Ha amato l’arte, annusato opere sconosciute di Picasso nel retrobottega del suo mercante. Ha combattuto il fascismo da ragazzo, la burocrazia da uomo, le malattie da medico. Ha tenuto insieme il Molise, Bologna, Roma e l’America. Ha raccontato la vita. Come è stato possibile che Giuseppe D’Agata (1927-2011) sia diventato, come scrive il lettore, “invisibile”?
Lo fa il tempo, per tutti. Lo fa il carattere, per alcuni. D’Agata aveva due caratteristiche che conducono rapidamente all’oblio, ma regalano serenità in precedenza. La prima era la lateralità. Non presenziava, non promuoveva, si metteva da parte, guardava e aspettava. Scrisse: «C’era Vittorini e c’eranoaltri scrittori viventi. In coda potevo mettermici anch’io. Con discrezione e rispetto. Chiedendo permesso». La seconda era la tendenza, con piacere assecondata, a dire no. Ce ne sono di famosi. Disse no proprio a Vittorini, quando quello lesse il suo primo romanzo e gli propose di pubblicarlo, ma con modifiche ( probabilmente in chiave neo- realista). Un no ancor più fragoroso se si pensa che quel giovane di 26 anni che lo pronunciava aveva scoperto la letteratura italiana contemporanea proprio con Conversazione in Sicilia, che il padre tipografo gli aveva donato dopo averlo vinto a una lotteria rionale. Disse no alla professione medica, esercitata per alcuni anni, che gli chiedeva di rinnegare la satira ( quella sì, realista) del dottor Tersilli, da Sordi impersonato e prodotto. Disse no alla Rai dove era entrato da esterno, che lo aveva infine assunto come funzionario per sorvegliare e mitigare la creatività altrui e lo voleva dirigente per potersene liberare: prese la liquidazione e tornò a scrivere liberamente.
Neppure gli editori lo amarono davvero. Giangiacomo Feltrinelli gli disse di andare in fabbrica per imparare a scrivere e si sentì rispondere: «Ci vada lei». Al direttore generale della Bompiani cercò di vendere la moglie in un suq di Samarcanda. Iscritto al partito comunista, rivelò una vocazione anarchica per la vita e la scrittura. Non fece parte di alcuna corrente letteraria, si divertì a inseguire il popolare e lo sperimentale con uguale passione, scrivendo di templari e di partigiani, di fantasmi e di intrallazzatori. Semplicemente raccontò, raccontò l’Italia.
Il figlio del tipografo molisano si arruolò nella resistenza e ne diede conto nei Ragazzi del coprifuoco e nell’Esercito di Scipione. Visse la stagione del boom e ne narrò la decadenza morale, l’avidità che trasformava la missione in corruzione con Il medico della mutua. Colse la tendenza che trasformava la superstizione popolare in esoterismo d’élite ( e portava il paragnosta bolognese Massimo Inardi a diventare campione di Rischiatutto) e la descrisse nelSegno del comando.
Usò strumenti facili, quasi divulgativi ( il radiodramma, lo sceneggiato, il romanzo popolare) e altri complessi ( il” congegno narrativo” del Circolo Otes). Non fu isolato, ma fu tuttavia un’isola, legata ad altre come nell’arcipelago, senza veri confini, ma neppure strette vicinanze.
Nel sito omaggio gli amici della vita bolognese hanno scelto una definizione: scrittore resistente. Si attaglia sia al suo modo di vivere, sia alla sua capacità di raccontare quella fase in maniera come sempre indipendente, priva di retorica e ideologia. I ragazzi del coprifuoco non sono eroi se non per caso. Cercano un senso, seguono una scia, immaginano un destino. Li comanda il più bravo a biliardo. Condividono un’osservazione di Von Virchow, grande anatomista dell’Ottocento: «Ho eseguito migliaia di autopsie, e non ho mai trovato l’anima». Decenni dopo il fuoco è cenere, ci si rincontra in ospedale, la vita è passata, la rivoluzione non c’è stata. Si voleva e doveva vincere, ma soltanto nel primo tempo. Di quello D’Agata ci ha lasciato uno dei resoconti più credibili, non trascurando le piccole viltà, gli errori, le infiltrazioni. Da medico, ci ha dato una diagnosi attendibile.
Questa pagina di” riscoperta” è figlia di una serie di coincidenze. Il lettore che ha chiesto di Giuseppe D’Agata è molisano e si chiama Scardocchia. Era il cognome del mio primo direttore di giornale, Gaetano Scardocchia, un galantuomo nato a Campobasso e morto a New York, in un giorno di pioggia, all’uscita dalla metropolitana. Io, bolognese come D’Agata, quando divenni inviato a New York, andai a quella fermata per ricordarlo. L’ultimo testo di D’Agata, I passi sulla testa, è una specie di spartito jazz per percussioni che si apre con la vicenda di Don Ciccì, boss molisano trapiantato a New York, che decide di pensionarsi e tornare a casa senza lasciare nemici o temere vendette e ci riesce. Ecco, volevo far incrociare sulla strada di casa D’Agata e Scardocchia: alla fine di ogni migrazione, trasferimento, viaggio, è lì che andiamo.