Robinson, 12 giugno 2021
Storia culturale delle comunità LGBT+
Queer significa strano, obliquo, eccentrico, dubbio, deviante e dunque anche frocio. Nella lingua dell’eterosessualità normativa queer è un insulto, ma per le meravigliose capriole di cui solo le parole sono capaci, lo possiamo usare con divertimento e fierezza. Senza rinunciare all’idea di rifiuto (nei due sensi) contenuta nel termine, la queer theory ne ha infatti radicalizzato la valenza, volgendola al positivo. L’abietto, il marginale del queer diventa così un luogo da cui criticare e, perché no?,” spaventare” la pretesa di universalità naturale dei paradigmi sessuali e di genere dominanti. Da qui il titolo scelto da Maya De Leo, la studiosa che qualche anno fa fece scalpore tra i benpensanti ignoranti per il suo colto insegnamento accademico torinese dedicato alla storia dell’omosessualità.
Come se non ci fossero ragioni più che buone per insegnare all’università una storia il cui respiro va da Platone a Ratzinger, da Freud all’Aids, dai triangoli rosa dei lager ai matrimoni same- sex. Una storia che riguarda la vita e la memoria di milioni di persone, non solo le dirette e i diretti interessati, anche i loro genitori, amici, fratelli e sorelle, colleghi e colleghe. Quindi, come può una storia dell’umanità non costituire materia di insegnamento?
Perché scegliere il titolo Queer e non, come spiega il sottotitolo, un più “semplice” Storia della comunità LGBT+ ( dal Settecento ai giorni nostri)? Perché, spiega De Leo, queer è il “significante aperto” con cui raccogliere «i diversi scarti rispetto alle norme di genere e sessualità senza proporre una cornice identitaria univoca ». Titolo e saggio aprono così uno spazio di pensiero capace di accogliere la complessità di esperienze che spesso sfuggono o resistono alla fissità delle convenzioni linguistiche.
Prende così vita un’eterogeneità che si raccoglie, ora festosa ora afflitta, cordiale o nemica, sotto l’ombrello dell’acronimo LGBT+, una sigla che raduna «profili che sfuggono alla cis- eteronormatività», cioè alla norma eterosessuale e cisgender ( per i non addetti ai lavori,” cisgender”, in opposizione a transgender, è l’allineamento tra sesso assegnato alla nascita e sentimento d’appartenenza di genere). Il + indica l’inclusività sempre in progress, fino ad acronimi scioglilingua e a mio avviso non sempre utili che ci precipitano in ghirlande di” inizialismo” tipo LGBTTQQIAAP+ a comprendere identità Questioning, Asexual, Pansexual e via dicendo.
Se l’acronimo funziona come formula aggregante socio- mediatica, certo non giova all’indagine filosofica e psicologica, visto che per definizione uniforma specificità di singole categorie peraltro già insoddisfacenti. Per questo, nel discorso comune, e giustamente De Leo lo sottolinea, è meglio usare tutti questi termini in forma aggettivata, mai sostantivata; e, aggiungo io, declinare sempre al plurale ogni categoria sessuale e di genere: gli uomini, le donne, le omosessualità, le eterosessualità, le diverse esperienze transgender e così via. Nella scrittura è un’opzione poco pratica, l’importante è averlo in testa.
Come si capisce da queste parole introduttive la questione terminologica è fondamentale, anzi è gran parte della storia, perché, spiega De Leo, «le identità e le esperienze in collisione con le norme su genere e sessualità sono state variamente nominate nei diversi contesti storici e culturali». Non si tratta insomma di descrivere una schiera indistinta e opaca, ma anzi di porre l’accento sulle gerarchie, i rapporti di forza e potere, le soggettività e le variabili ( per esempio classe e” razza") che producono e, direbbe Butler, performano i percorsi di costruzione identitaria.
Non poteva che scaturirne un libro avvincente, capace di toccare ogni registro dell’esperienza ( e della scrittura): epico, tragico, comico, romantico. La copertina mostra i volti e le fogge delle clienti abituali del Monocle, famoso night club” per donne” nella Parigi degli anni Venti. Sguardi che ci ri- guardano. E ci rimandano alla pluralità degli elementi e delle pressioni che tracciano i perimetri, sempre instabili, delle identità e disidentità sessuali. In questo senso il queer del titolo è anche un verbo, «che descrive l’azione di torsione, revisione, sovversione della pratica stessa della scrittura della storia».
Organizzato in tre parti “Archeologia della comunità LGBT+”,” Nascita e tramonto del closet”,” Rivoluzioni, resistenze, intersezioni”, fino agli orizzonti ( anti) identitari dei giorni nostri, più “Epilogo” denso di suggestioni e spunti per un futuro che è già presente, questo saggio non poteva che affidarsi a più fonti: non solo documentarie e trattatistiche ( mediche, psichiatriche, criminologiche) ma anche le piccole e uniche storie delle narrazioni individuali, letterarie e non, la cui stupefacente ricchezza è impossibile riassumere qui. Solo un dolce esempio, tra mille, tratto da un anonimo redattore di un verbale di polizia di metà Settecento e riguardante una coppia di domestici: «Duquesnel e Dumaine dormono insieme da due anni. Non erano capaci di addormentarsi senza essersi toccati a vicenda e aver commesso atti ignobili. Duquesnel aveva quasi sempre bisogno di stendere il braccio lungo la testiera sotto la testa di Dumaine. Altrimenti non riusciva a riposare».
Un racconto che, in libera associazione, mi spinge a ricordare una delle mie osservazioni preferite di Foucault, a cui, inevitabilmente, il saggio di De Leo molto deve: «Se si vedono due omosessuali, o meglio due ragazzi che se ne vanno insieme a dormire nello stesso letto, in fondo li si tollera, ma se la mattina dopo si risvegliano col sorriso sulle labbra, si tengono per mano, si abbracciano teneramente, e affermano così la loro felicità, questo non glielo si perdona. Non è la prima mossa verso il piacere a essere insopportabile, ma il risve-aabcc glio felice».