Specchio, 13 giugno 2021
Intervista alla scrittrice Edith Bruck
«Racconta anche per noi! Racconta!» Edith Bruck è una scrittrice di origine ungherese che vive in Italia. Il suo nuovo libro Il pane perduto è candidato al Premio Strega 2021. Nel 1944, fu deportata con la sua famiglia ad Auschwitz. «Ho provato a scrivere come se volassi sopra la mia vita, dall’infanzia fino a oggi. Non è solo un’autobiografia, perché non considera solo quello che è successo a me. È la storia di ciò che è accaduto all’umanità».
Da dove viene il titolo del libro?
«Mia madre stava facendo il pane per Pesach (Pasqua). Alle 5 del mattino dell’ultimo giorno della festività, i fascisti ungheresi hanno sfondato la porta. È stato terribile. Mia madre si è messa a piangere: il pane, il pane! Era quasi pronto da infornare ed era molto importante, per lei e per noi, avere il pane in casa. È diventato l’emblema del suo dolore: per tutto il viaggio reclamava il pane. Non sapevamo dove saremmo finiti, non conoscevamo il nostro destino, e lei piangeva per il pane! Per questo ho intitolato il libro Il pane perduto».
Ad Auschwitz i suoi genitori sono stati uccisi, ma lei e sua sorella siete sopravvissute?
«Quando siamo arrivati ad Auschwitz, hanno fatto la selezione in un attimo. Io stavo andando a sinistra con mia madre. Uno dei soldati tedeschi mi disse, molto lentamente: "Vai a destra. Vai a destra". Non sapevo che la sinistra fosse per il crematorio e la destra per il lavoro. Poi ho trovato mia sorella e siamo state sempre insieme in sei campi diversi. Abbiamo vissuto sempre l’una per l’altra e così ci siamo salvate. Senza di lei sarei morta».
Perché tanti campi diversi?
«Perché alla fine i nazisti volevano uccidere quante più persone potevano. La liberazione era quasi arrivata, e così ci hanno portato via. Da Auschwitz siamo andati a Dachau; da Dachau a Bergen-Belsen. E da lì abbiamo fatto una lunga marcia della morte, più di 500 km a piedi, fino a Christianstadt. Poi di nuovo a Bergen-Belsen. Sempre a piedi. Su migliaia solo 20 o 30 di noi sono sopravvissuti. A Bergen-Belsen il campo era pieno di morti e moribondi, ci hanno fatto impilare i moribondi in una specie di piramide. Erano completamente nudi, non sapevo chi fossero, ma ripetevano: "Racconta la nostra storia"».
Dove avete trovato la forza per sopravvivere?
«Avevamo una vita difficile a casa, quindi eravamo abituate a lavorare e a essere forti. Gli ebrei poveri avevano più difese della classe media. Gli uomini morivano più delle donne. Erano sempre stati accuditi dalle madri e sorelle. Ho lavorato in cucina a Dachau ed era terribile vedere gli uomini. Erano senza forza».
Dopo la guerra è andata in Israele, si è sposata rapidamente e infelicemente, ma perché non è rimasta lì?
«Israele era un Paese difficile in quel momento. Quando pativamo la fame in Ungheria, mia madre diceva: "Un giorno andremo nel nostro Paese, in Israele. Ci accoglieranno a braccia aperte e saremo felici". Ma quando sono arrivata lì non era il momento di accogliere le persone a braccia aperte. Mi aspettavo qualcosa che in realtà non esisteva. Gli israeliani erano forti e pronti a combattere. Io invece non ero abbastanza forte per affrontare la guerra e i terroristi».
Cosa prova per Israele oggi?
«È molto tragico, molto triste. Israele è sempre in guerra. Tre o quattro generazioni sono cresciute nell’odio. Non so cosa fare, ma non credo si possa andare avanti in questo modo».
Ha famiglia lì?
«Sì, il figlio di mia sorella vive in Israele con i suoi figli. Deborah, l’altra figlia di mia sorella, è qui con me in Italia. Io, arrivata in Italia, ho lavorato da un parrucchiere a Roma. Quando ho conosciuto mio marito, il poeta e regista Nelo Risi, mi ha chiesto di smettere, ma io ho detto: ci servono soldi per l’affitto. Lui non ha mai capito cosa fossero i soldi».
Dopo la guerra, per lei, Primo Levi, Eli Wiesel e altri è stato molto difficile pubblicare le vostre testimonianze?
«Primo mi disse che, se fosse riuscito a trovare un editore per Se questo è un uomo, non sarebbe mai tornato al suo lavoro di chimico. Ma quando siamo tornati dai campi di concentramento, nessuno voleva sentirci. Nessuno. Io ho iniziato a scrivere comunque, perché ero piena di parole. Non riuscivo proprio a tenermi quel veleno dentro».
Che rapporto aveva con Primo Levi?
«Siamo stati molto vicini dal 1970 fino agli ultimi giorni della sua vita, nell’aprile 1987. Mi aveva chiamato quattro giorni prima di suicidarsi e mi aveva detto che non c’era più speranza, niente. Era depresso, chiuso come una statua, era molto difficile per lui trovare un minimo di serenità. Ho saputo del suicidio dopo mezz’ora da suo cognato. Stavo mangiando, mi sono alzata e ho urlato che ora potevo anche uccidermi, perché se può farlo lui, posso farlo anche io. Mio marito aveva paura di quello che avrei potuto fare. Non ho mai pensato in vita mia di uccidermi, ma ero molto provata».
Papa Francesco è venuto a trovarla a casa. Come è stato?
«Quando sono andata ad aprire e ho visto questa figura bianca sulla porta, ho cominciato a piangere. Non so perché, ma mi ha toccato molto. È un essere umano incredibile. Mi ha raccontato che allo Yad Vashem di Gerusalemme, ha chiesto perdono per quanto era stato fatto al popolo ebraico. E si è detto molto grato per quello che faccio, andando nelle scuole in Italia da sessant’anni a portare la memoria della Shoah. Abbiamo parlato anche di oggi, del nuovo antisemitismo e del razzismo».
Aveva letto il suo libro?
«Sì, ricordava tutti i piccoli gesti che mi hanno permesso di sopravvivere nei lager, dal primo soldato che mi ha salvato quando sono arrivata: il cuoco che ha chiesto il mio nome; un soldato che mi ha dato un po’ di marmellata; l’altro che non mi ha sparato; un altro che mi ha dato un vecchio guanto. Era molto importante, era l’umanità, rappresentava tutte le cose positive».
Qual è la reazione dei bambini quando parla nelle scuole?
«L’impatto è sempre molto positivo. Forse hanno bisogno di ascoltare, perché a casa non ne parlano. Sono molto attenti, molto seri, e dicono: non sarò mai antisemita, mai fascista. Hanno bisogno di sapere, e il guaio è che la storia non glielo insegna. Mi scrivono un sacco di lettere incredibili. Solo una volta a Roma cinque studenti hanno detto che volevano andarsene ad ascoltare la musica e io ho detto, "parlo del fatto che mia madre è stata bruciata nel crematorio e tu vuoi ascoltare la musica. Se non ti interessa, puoi andare". Di 500 studenti solo loro cinque sono usciti. A volte non dormo la notte prima di andare, ma quando esco dalle scuole mi sento bene. Il loro ascolto mi ripaga».
L’antisemitismo esiste ovunque. Ogni volta che c’è un problema con Israele è anche una buona scusa per l’antisemitismo?
«La gente non fa differenza tra gli ebrei nel mondo e Israele. Quando Israele fa qualcosa. tutti gli ebrei del mondo sono colpevoli. Non puoi essere una persona con la tua opinione, giudicano sempre tutti gli ebrei insieme. L’antisemitismo è presente in tutto il mondo. L’ho detto al Papa e lui ha detto che sì, è molto antico le radici non sono mai state estirpate. Non credo sia cambiato nulla. E con Israele lo è ancora di più».
Ricorda quello che è successo come un incubo?
«Non è un incubo. È presente tutti i giorni. Fino all’ultimo giorno della mia vita, ricorderò tutto. È una realtà. Penso che sia giusto così. Non dobbiamo assolutamente mai dimenticare quello che hanno fatto a me e al popolo ebraico». —
(Traduzione di Carla Reschia)