Specchio, 13 giugno 2021
Intervista a Stefano Orfei
C’è una foto in bianco e nero del suo battesimo, celebrato nella gabbia dei leoni su un pavimento di segatura, che è subito madeleine per chiunque sia stato piccolo qualche decennio fa. L’anno è il 1966, il bambino è nato per caso a Genova. Sua madre, che ha terminato lo spettacolo serale prima di correre a partorire, è la Regina degli Elefanti, papà un celebre domatore di tigri - quel che anche il neonato sarà - e lo scatto lo coglie in posizione incongrua rispetto alla scena, attento a non perdere il contatto visivo coi due grandi felini in posa plastica sullo sfondo. Stefano Orfei Nones è il principe pop d’una grande dinastia circense che, come ogni famiglia regnante del tempo che fu, conserva un posto di riguardo alla tv del pomeriggio e nell’immaginario di molti italiani (lui ci aggiunge di suo un matrimonio fotogenico e felice con l’attrice e soubrette Brigitta Boccoli, incontrata grazie al Reality Circus di Canale 5). Dai genitori Moira Orfei e Walter Nones ha ereditato non solo un’impresa di famiglia, ma un mondo: ingombrante, certamente in crisi, però ricco d’una sua lampante perfezione. «Alla gente del circo», dice Stefano a un certo punto della nostra conversazione, «non importa se sei bianco o nero, se sei gay o lesbica, se sei nano, perché noi siamo già così. L’unica cosa è che, andando all’estero, ci siamo sempre portati la pasta da casa». Applausi.
Quando hai capito che la tua vita era diversa da quella dei coetanei che assistevano ai vostri spettacoli?
«È difficile dirlo, cresci dentro quella che per te è una vita normale e non ci pensi. Forse la cosa più strana era la scuola, io la cambiavo e gli altri restavano. La prima elementare l’ho iniziata a Milano città, poi papà ha preso un maestro parificato per fare le lezioni nel circo. Ho fatto la terza a San Donà del Piave, metà quinta ad Atene, una parte della prima media a Tehran, alla scuola internazionale...».
Già, che storia l’Iran. Nel settembre del ’77 arrivaste per una lunga tournée su invito dello Scià e vi ritrovaste travolti dalla rivoluzione islamica. Cosa ricordi?
«Tutto. I primi mesi a Tehran, bellissimi. La sensazione di essere anni luce avanti, la tv americana via cavo, i centri commerciali come li abbiamo in Italia adesso, e le persone: eccezionali. Poi il viaggio verso il mar Caspio all’inizio del ’78, su due treni per settanta vagoni, e la sensazione che ci fosse dell’ostilità nell’aria, le prime sassate. Ricordo la volta che ci hanno bruciato le scuderie, ma anche le partite a pallone coi bambini dei posti in cui ci fermavamo. E la sera di Babol, quando il capo della polizia locale ci ha detto: ci sono un migliaio di estremisti che si preparano per assaltarvi stanotte, se sarà necessario liberate gli elefanti e salvatevi la vita».
Per fortuna non fu necessario.
«No, ma eravamo pronti. Io li ho visti arrivare, tantissimi. C’è stata una breve trattativa, poi hanno detto: fate il vostro spettacolo, smontate tutto e andate via. Vuoi sapere una cosa? Quella sera abbiamo fatto il pienone».
Tornaste a Tehran, e fu una tragedia.
«Bloccati in una piazza per mesi. La mamma e mia sorella Lara ottennero il permesso di tornare in Italia, noi restammo lì e, nonostante il grande aiuto ricevuto dell’Ambasciata italiana, alla fine eravamo alla fame. Per far mangiare i felini abbiamo dovuto uccidere i nostri cavalli, ma sarebbero poi morti tutti. Anche di quei giorni però ho il ricordo delle amicizie, la figlia di un funzionario dell’Ambasciata, i ragazzini del quartiere che venivano a giocare da noi. Alla fine fu Achille Lauro a salvarci - non il cantante, eh. Aveva una nave in zona, la Laura, ce la mandò. Farah Diba riuscì a farci ottenere il via libera poco prima d’andare in esilio, e così tornammo a casa. Io in aereo col marito di mia zia Loredana, sai quella del circo sul ghiaccio, gli altri in nave. Sbarcarono a Napoli a fine dicembre, dopo venti giorni di navigazione, e a Capodanno eravamo già in scena».
Che idea ti sei fatto del mondo fuori?
«Noi siamo dei circensi aperti, papà aveva anche studiato dai salesiani. Ci siamo trovati bene dappertutto. Forse un po’ meno nella Yugoslavia di Tito, dove c’era quel tipo di comunismo che vengono a svegliarti alle cinque di mattina per controllare i documenti: 250 persone buttate giù dal letto e radunate in pista. E poi la gente, lì sì che ti rendevi conto della difficoltà. Dopo la guerra, però, in quei luoghi abbiamo sempre lavorato benone: conosco Belgrado e Zagabria come le mie tasche. Ho amato la Libia, quella di Gheddafi. A Tripoli ci siamo rimasti mesi, un giorno mi sono spaccato la bocca sul tappeto elastico e me l’hanno rifatta tutta in ospedale, un medico bulgaro. Poi dici, la Libia... C’erano coreani, giapponesi, italiani, tutti lì a lavorare. Io in Libia ci stavo da dio, ancora adesso non capisco il senso di quella guerra contro Gheddafi».
Hai avuto un animale migliore amico?
«L’elefantina Baby, che purtroppo è morta giovane: a 30 anni ha preso un batterio in Sardegna. L’elefante africano si attacca moltissimo a una persona in particolare, perciò quando a Torino nel 2009 una tigre m’ha aggredito, Baby è come impazzita. Sentiva l’odore del mio sangue sulla pista e picchiava tutti, non mangiava più. Ho dovuto firmare per uscire dall’ospedale e farmi portare da lei in sedia a rotelle. Mi adorava, Baby. Sentiva la mia presenza da lontano e allungava la proboscide per raggiungermi, sai tipo telescopio».
L’incidente con la tigre fu terribile, l’hai superato?
«Ci ho messo sei mesi a guarire fisicamente, poi sono tornato in gabbia. Era stato un errore stupido, la tigre non ha riconosciuto il mantello di scena e l’ha attaccato. Ma il momento in cui l’ho vista partire e ho sentito che non l’avrei fermata, non lo scordo. Lì è quando ti dici: ecco, sono morto».
Che ne è stato della tigre?
«Abbiamo lavorato insieme fino a prima del Covid. Ora ci ha lasciati».
Aveva un nome?
«Certo, si chiamava Tristan, come Brad Pitt in Vento di Passioni, un film che mi è piaciuto molto».
Da bambino assistevi alle famose sedute di trucco di tua madre Moira?
«Capitava, per forza. Avevamo un rapporto piuttosto libero io e mamma. Lei ogni giorno ci metteva ore a prepararsi e io magari dovevo andare in bagno. Non lasciava mai il caravan struccata».
Quindi la mattina usciva sempre tardi.
«La mattina non esisteva, lei andava a dormire alle sei, figurati. Un paio di volte s’è alzata presto per portarci al mare: stava in spiaggia con cappello, ombrello e ombrellone, per non rovinare la pelle. Nel circo, comunque, non hai certo il problema di dove andare ad agosto o a Natale. Un giorno, e avevo più di quarant’anni, ho chiesto a Brigitta cosa fosse la settimana bianca. Ah, una vacanza in montagna? Pensa te!».
Alla fine la tua vacanza è stata la partecipazione all’Isola dei Famosi.
«In un certo senso, sì, un’esperienza bellissima. Intendiamoci, era tutto vero, ho perso 14 chili, ma capirai che per me, pescare, andare a fare legna...».
Arriviamo al tasto dolente, Stefano. Noi apparteniamo a generazioni che hanno scoperto tardi l’ambientalismo, io per esempio da bambina andavo allo zoo con il pacchetto dei Tuc per le zebre: orrore.
«Ma i Tuc non fanno mica male alle zebre!».
Ah, meno male. Comunque: a un certo punto s’è cominciato a reclamare un circo senza animali.
«Molta gente parla senza conoscere le cose. I nostri animali hanno un’anima, un nome, una vita piena. Ti racconto una storia. Un giorno sono andato allo zoo di Bergamo, che è bellissimo, e lì c’era un rinoceronte un po’ abbacchiato, sempre a testa bassa. Lo conoscevo, veniva dal circo di Cesare Togni, allora mi sono avvicinato e l’ho chiamato col suo nome: "Freddy! Come here!" Avresti dovuto vederlo. Ha drizzato orecchie e testa ed è venuto verso di me, come a dire: ecco, sono io!».
Quindi il problema non esiste?
«Non dico certo che in tutti i circhi gli animali siano stati tenuti bene. D’altronde abbiamo il Telefono Azzurro e il Telefono Rosa, perché ci sono famiglie dove i bambini e le donne sono maltrattati. Allora fai i controlli, non ha senso generalizzare. Noi con gli animalisti ci confrontiamo dagli anni Ottanta, ma ora coi social si esasperano troppo le cose. E mica solo sugli animali».
Cosa pensi quando vedi tutte quelle foto di cani e gattini?
«Belle, ma il cane in appartamento, poveraccio... Allora sta meglio il leone mio nel campo di Latina, con la vasca, l’habitat, l’erba».
Però il circo tradizionale è in crisi.
«La ragione è soprattutto economica. In Italia abbiamo cominciato a patire nel 2009, però nel 2017 abbiamo fatto sette mesi incredibili in Calabria, a Torino ci accolgono sempre bene e, se voglio fare una bella estate, vado verso Cesenatico, o Bibbione. Se sbagli zona, invece, è un problema, ma è sempre stato così. Fortunatamente il circo si può spostare».
Vai dove ti vogliono.
«Brava».
Da un anno e mezzo il tuo mondo viaggiante è parcheggiato a Latina. Che succede adesso?
«Per noi che siamo grandi, ripartire ha costi enormi. Lo faremo in autunno, senza correre rischi. Coi vaccini si torna alla normalità, ma non credo sarà subito un "tutti al circo!"».
Nel frattempo, cosa fate per sopravvivere?
«I salti mortali».
Lo scorso ottobre hai venduto all’asta i gioielli della mamma.
«L’aveva già deciso lei prima di morire, io l’ho fatto. Con il ricavato abbiamo mantenuto i nostri animali per qualche mese. Perché loro sono come bambini, non c’è solo il cibo, c’è il veterinario, il maniscalco».
Cos’è questa leggenda del circo bello ma triste?
«Ma sai che non lo so? Anche Brigitta lo pensava, poi dio l’ha punita facendole incontrare me. Scherzi a parte, noi non siamo mai stati tristi. Neppure i clown. Magari Fellini li ha raccontati così, ma lo sapeva anche lui che i clown non sono tristi».
A volte da bambini se ne ha paura.
«Pensa che è successo anche a mio figlio, quand’era piccolino. Allora gliene ho fatto vedere uno mentre si strucca: ha capito che sotto c’era la persona e s’è tranquillizzato. Certo, se poi fanno tutti quei film coi clown cattivi...».
Hai due bambini, saranno domatori anche loro?
«Tigri e leoni no, non esiste. Questi animali ti segnano per sempre e lo capisci quando hai la fortuna che ho avuto io, di rimanere vivo. Il più grande ha già un suo numero con l’elefante ed è molto portato come giocoliere: lo incoraggio in quello».
Allora sei l’ultimo domatore della tua famiglia.
«Probabilmente sarà così».