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 2021  giugno 12 Sabato calendario

Intervista a Max Brooks, scrittore di horror

Max Brooks potrebbe farci ridere, ma preferisce terrorizzarci convinto che «una storia di mostri può insegnarci molto sul mondo». Figlio del premio Oscar Mel (regista di iconiche parodie come Balle Spaziali o Frankenstein junior), Max ha ereditato la vena comica, esaurendola però all’inizio dei Duemila nel Saturday Night Live, di cui è stato autore. Poi, la sterzata, anzi il testacoda che l’ha posizionato all’estremo opposto: dalla risata al terrore. Si dice che il suo primo editore trattò Manuale per sopravvivere agli zombie come un romanzo satirico: «È vero, pensava di spacciarlo per un libro di Mr Brooks junior - dice Max -. Ho cercato di avvisarlo che sarebbe stato un disastro e infatti la prima recensione fu terribile, poi per fortuna sono riuscito a stracciare quel piano marketing e far da me». E così Max ha trovato il suo giusto posto nelle librerie. Tre anni dopo il debutto, è arrivato anche World War Z. La guerra mondiale degli zoombie, da cui è stato tratto il blockbuster con Brad Pitt, e poi ancora una serie per ragazzi e il volume illustrato The Harlem Hellfighters. Fino a Devolution, che tradotto in italiano è molto meno teorico e più concreto: Il massacro del monte Rainier.
A Los Angeles sono le 8 del mattino quando Brooks ci apre su Zoom la porta del suo studio. Scrivania, pila di libri (ne ha letti 20 per documentarsi sul Rainier e il suo vulcano dormiente), pure un’ascia (poi ci spiegherà) e lavagne, tante, su cui si appunta scaletta e personaggi. Sembra una scuola e lui un maestro.
Che lezione vuole impartirci? Dice di utilizzare la letteratura per lanciare messaggi serissimi: qui sembra voler criticare la nostra società troppo dipendente dalla tecnologia.
«La tecnologia di per sé è positiva, ne abbiamo bisogno, ci facilita la vita e ci diverte, ma non possiamo darla per scontata: quello che voglio dire in questo romanzo è che ci serve un piano di emergenza. Continuiamo pure a innovare e progredire, ma prepariamoci se qualcosa dovesse andare storto».
Lei è il figlio di un grande comico, da dove viene la passione per l’horror?
«Credo nell’educazione attraverso qualsiasi mezzo e genere artistico o letterario. Lo so, avrei potuto scegliere la commedia, far ridere le persone aiuta a renderle più recettive. Un esempio? Prendete il vostro ministro della Salute: se volesse comunicare in modo più efficace alcuni messaggi scientifici, potrebbe farsi aiutare da Ezio Greggio, che sicuramente ha più appeal sul pubblico. Ma ad altri invece la commedia non interessa, hanno bisogno di essere spaventati. E i romanzi dell’orrore sono un ottimo strumento di istruzione».
Quando era bambino era dislessico e ha imparato meglio attraverso l’intrattenimento, dice. Questo l’ha aiutata anche a diventare lo scrittore che è ora?
«Lo sono ancora, la dislessia non ti abbandona. Mi ha plasmato come scrittore, certo, perché ho capito quanto l’intrattenimento fosse anche utile. Io ho imparato in questo modo. Il mio eroe era Tom Clancy: lui non scriveva fantasie o fiction ma romanzi densi di ricerche e basati su fatti reali. Dopo averli letti mi sono sentito più intelligente e ho pensato: "Ecco il tipo di scrittore che voglio essere. I miei lettori dovranno svagarsi, ma al tempo stesso imparare qualcosa"».
Il suo non è un libro ecologista, eppure ci avverte circa la necessità di rispettare la natura (o i Bigfoot ce la faranno pagare)…
«Ne sono convinto. Quando si lascia la città per la campagna, bisogna sentirsi ospiti a casa della natura non padroni, e rispettarne le regole. So che in Italia è diverso, tutta l’Europa occidentale è un giardino, ma in Nord America il territorio è molto più selvaggio, eppure in troppi si approcciano come fosse un patinato parco europeo, questo voler antropomorfizzare a tutti i costi mi spaventa ed è molto pericoloso».
Nel libro la super efficiente eco-comunità di Greenloop dà segni di cedimento al primo "intoppo" naturale, l’eruzione del monte Rainier. Lei come avrebbe reagito se si fosse trovato lì?
«Penso che sarei stato migliore dei miei personaggi. Perché io sono preparato. Vivo a Los Angeles, patria dei disastri. Abbiamo terremoti, incendi e siccità. E mia madre mi ha insegnato fin da bambino ad affrontare le emergenze».
Sembra dar per scontato che prima o poi qualcosa di tremendo accadrà. C’è un rischio reale per il monte Rainier e per la nostra Terra?
«Assolutamente sì. Il pianeta è minacciato e il monte Rainier potrebbe eruttare da un momento all’altro, me l’hanno confermato scienziati che lo studiano da anni e che ho interpellato mentre scrivevo. Loro ci avvertono, sanno quando e dove potrà accadere. Per questo credo che il mio libro potrebbe servire a tutti, anche a voi italiani: parla di una Pompei americana, dei nostri giorni».
Greenloop è una bolla: crede che questa dimensione sia fallimentare? Come influisce rispetto al rischio di cadere preda di catastrofi?
«Il loop - la bolla - è un problema per tutti. La maggior parte degli americani, e probabilmente anche degli italiani, oggi vive in una bolla, non sa come funzionano l’elettricità, gli impianti idraulici, i vaccini, perché delega qualsiasi cosa, se ne disinteressa. Non dico che tutti debbano saper fare tutto, ma almeno devono capire come farlo. È fondamentale. Stiamo diventando come i barbari che conquistarono Roma, e non sapevano far funzionare gli acquedotti ed è rischioso».
Oggi a travolgerci è stata una pandemia, che ci ha sorpresi in effetti impreparati. Il Covid-19 ha influenzato la stesura del suo libro?
«No, l’ho scritto molto prima, ci lavoro da 10 anni. Ma non è difficile vedere il futuro, cioè dove andremo a finire, quando hai chiaro il presente, cioè dove stiamo andando. Il Covid, però, non mi ha permesso di partecipare a convegni, autografare e vendere libri, stringere mani e incontrare persone, nemmeno lavorare all’audiolibro, che per me è importantissimo, perché gli attori non potevano raggiungere lo studio di registrazione, ci siamo dovuti organizzare in modo rocambolesco ognuno dalla propria casa. In questo senso ha cambiato la mia vita».
A proposito di pandemia, l’anno scorso ha girato con suo padre un video molto efficace, diventato virale anche in Italia, in cui con tono ironico chiedeva di stare a casa per non uccidere suo padre e un’intera generazione di comici. Qual è la situazione ora?
«Adesso siamo vaccinati, io, mio padre, mio figlio, mia moglie, il fratello di mia moglie. Siamo al sicuro. Spero che lo siano presto tutti gli americani».
Nel libro la protagonista è Kate, una giovane donna. E altri personaggi chiave sono Palomino, una bambina, e Mostar, un’anziana temeraria intelligente con quel nome-citazione della città bosniaca. È una coincidenza o una scelta legata a questo periodo di rinnovata coscienza femminista?
«È un caso, mi servivano figure da contrapporre, molto deboli e molto forti e guarda caso le forti erano donne. Sono molto a mio agio tra donne forti, anche nella vita privata, non mi sento minacciato. So che per voi può suonare strano, per via di un certo machismo diffuso in Italia, ma non mi interessa. Mia madre era una donna italo-americana di successo, ha comprato lei la casa in cui sono cresciuto e lavorava esattamente come mio padre, lo stesso posso dire di mia nonna e mia moglie, una donna potente, intelligente: sono fortunato a stare con lei».
Nella sua infanzia ci sono molti mostri o creature che l’hanno spaventato e di cui poi hai scritto: è un modo per esorcizzare vecchie paure?
«Forse sì. Da bambino ero terrorizzato dai film dell’orrore, quello che più mi ha sconvolto, tra l’altro, è italiano e lo vidi a 12 anni, Virus, l’inferno dei morti viventi. Mettiamola così: ora con questo libro sugli Sasquatch, meno conosciuti in Italia, mi sono vendicato: spero di terrorizzarvi come avete fatto voi con me».
Perché ci ha messo così tanto a scrivere di Sasquatch se l’incubo l’ha perseguitata per anni?
«Perché aspettavo la storia giusta. Quando vivevo a New York era più facile occuparmi di zombie, ma qui in California sono entrato in contatto con la natura e quando ho cominciato a incontrare persone che erano state davvero attaccate dagli animali, mi è nata l’idea del libro».
Ha scelto la forma del diario alternata alle interviste…
«Il diario mi serviva nel caso della protagonista, Kate. Lei non potevo intervistarla, perché altrimenti avreste saputo con certezza che era sopravvissuta. Non ci sarebbe stato nessun mistero».
Vuol dire che ci sarà un seguito quindi?
«Non lo so, ma i punti interrogativi sono ancora tanti».
Ci racconti perché ha un’ascia lì, nella libreria alle sue spalle...
«L’ho costruita io, per capire se anche Kate l’avrebbe potuta realizzare da sola a Greenloop».
Che peso ha questo tipo di ricerca nei suoi romanzi?
«È fondamentale, la parte più importante perché è quella che innesca la fiducia nel lettore. Ho bisogno di essere credibile, provo tutto sulla mia pelle, ho anche piantato alcuni semi per seguirne la crescita e capire quanto le tempistiche nel romanzo fossero realistiche, e poi ho visitato il luogo esatto dove avrei ambientato Greenloop. Quando scrivo i miei libri sono un insegnante, ma prima sono uno studente».
Ora il suo libro diventerà un film. Quali attori le piacerebbero? Ad esempio, per il ruolo di Kate…
«Beh, non avendo alcun potere sulla produzione, vale tutto, posso esprimere quindi qualsiasi desiderio e allora vi dico che vorrei Sofia Loren. Se potessi scegliere».