Tuttolibri, 12 giugno 2021
Hrabal & i gatti
Volendoci in qualche modo orientare nell’affollato inventario dei gatti hrabaliani, la cosa migliore sarà cominciare a dividerli in due gruppi: quelli in carne ed ossa, che abitano sia la casetta nel bosco di Kersko (a 40 km. da Praga) che i testi memorialistici, e i gatti invece d’invenzione, che di tanto in tanto fanno capolino nelle sue narrazioni. Caso unico, i felini protagonisti del racconto lungo Io e i miei gatti appartengono a pieno diritto a entrambe le categorie. Ma andiamo con ordine. Se si esclude l’alto numero di gatti che gironzolavano nel birrificio di Nymburk, dove lo scrittore aveva passato la giovinezza, il primo gattino appare ufficialmente nella casa di Hrabal verso la metà degli anni ’60. Si chiama Etan, ha il pelo tigrato ed ebbe una sua indubbia rilevanza se in Spazi vuoti, il terzo volume della bizzarra autobiografia che Hrabal affida alla voce narrante della moglie, gli vengono dedicate ben dieci pagine. Non è lì per caso: gliel’ha spedito a Praga la madre per distrarlo dalle osterie e trattenerlo di più a casa in quei mesi in cui esplode il «fenomeno Hrabal» che, quasi cinquantenne, nel giro di tre anni pubblica cinque libri. Di lui abbiamo anche testimonianza fotografica: Hrabal seduto in posa davanti alla casetta di Libe? con in braccio il gatto, che non mostra però particolare gioia, così come quando lo scrittore, colto da lancinanti fitte al fegato (è la moglie a raccontarlo), per lenire il dolore se lo piazzava sulla testa «come fosse un impacco». Dopo la scomparsa di quel primo gatto, i felini prenderanno a proliferare nella casetta di Kersko, creando un assembramento difficile da gestire. Si chiameranno Pepito, Capellona, Arancia, Meringa (perché bianca come i giocatori del Real Madrid) o Cassius, perché nero come Cassius Clay. E negli ultimi anni lo scrittore partirà apposta da Praga, in corriera al mattino, per portare da mangiare a quel «serraglio» (la definizione è sua): pollo arrosto a tocchetti, polpettone, tranci di sgombro… Anche qui una foto lo mostra accovacciato accanto ai gatti intenti a rimpinzarsi, mentre anche lui sembra condividere lo stesso cibo. È un rapporto, il loro, di reciproco innamoramento e amore, ma spesso anche la lucida descrizione di «un dramma, talvolta con inserti sentimentali, da non poterci dormire la notte», come la guerra feroce dei suoi gatti, «divisi in clan», contro l’amato Cassius, costretto a «emigrare» tra cassonetti e immondizie. Dopo la morte di Hrabal, questo non ha però impedito l’insorgere, nella regione, di un fiorente commercio di gattini in ceramica «sulle tracce dello scrittore»... Kitsch felino che culmina nei due enormi gatti stilizzati (a metà tra il Behemoth del Maestro e Margherita e una statuetta ingigantita degli Oscar), collocati in piedi alla fermata della corriera da cui lui scendeva. In questa incontenbile passione di Hrabal per i gatti, stupiscono i loro scarsi ritorni nei testi di finzione. Certo, è estremamente hrabaliana la storia che, in un racconto del ’59, Han?a – lontano antenato del protagonista della Solitudine troppo rumorosa- finge di leggere dall’Unità: una muta di gatti che, agli Uffizi, «gli era presa la rabbia e avevano cominciato a prendere a morsi quindici tedeschi che stavano lì in pinacoteca, e i loro baedeker glieli avevano ridotti tutti in poltiglia». E, agghiacciante nella sua (hrabaliana) spietatezza, è anche la vicenda della donna – innamorata e un po’ bislacca – che porta in dono al grafico Boudník la statuetta moderna di un cane o di un gatto, ma poi gli confessa che lì «all’interno c’era un gatto che i betonisti per gioco avevano gettato nel cemento ancora liquido», e che poi all’aria si era indurito, creando quella sorta di «maschera mortuaria». Nel dicembre del ’68, mentre le truppe d’occupazione con la stella sul colbacco sono già da alcuni mesi in Cecoslovacchia, Hrabal descrive invece una serena vigilia di Natale a Nymburk, coi gatti appollaiati sull’albero addobbato, finché non entra il gatto più grosso che, per agguantare il cuccioletto che su in cima gioca accanto alla stella, tira giù l’intero alberello. La morale? Be’, sarebbe più opportuno che il gatto grosso si comportasse come fosse più piccolo e non scaraventasse giù un gattino «solo perché sta lì a giocherellare con la stella». In una lunga intervista degli anni ’80, Hrabal spiegava disperato: «Bastano due gatti per farvi impazzire»: due gatte in lite tra loro è «come avere due amanti che vengono a far visita a vostra moglie spifferandole ogni cosa». Io e i miei gatti racconta anche di questo ma, al di là dell’incantevole idillio iniziale e al di là degli sforzi di Hrabal per farci credere di aver scritto un (banale) reportage, un esempio di «realismo totale», il testo mostra tutti gli elementi di un intrigante racconto nero (con casa infestata e fantasmi), del delirio di una mente vittima e zimbello di forze misteriose, di un racconto giudiziario nel quale è proprio un timido gatto a pronunciare la sua feroce e tenera requisitoria su colpe e tradimenti. Perché è soprattutto di questo che Hrabal ci parla in quel 1983.