Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2021
Intervista alle architette Yvonne Farrell e Shelley McNamara
Il 7 ottobre 2020, Yvonne Farrell e Shelley McNamara (Grafton Architects) sono state insignite del Pritzker Prize con una cerimonia digitale. L’intervista - di cui proponiamo uno stralcio - è stata registrata subito dopo via Zoom.
Gli architetti pongono sempre al centro la nozione di spazio. Per la Biennale del 2016 avete coniato anche la nozione di «free space» che la pandemia ha messo in crisi.
McNamara: quando, in pieno lockdown, ci è stato chiesto di pronunciare il discorso d’accettazione del Pritker Prize, ci siamo trovate d’accordo sul fatto che non potesse essere fatto da casa. Abbiamo scelto di parlare dalla biblioteca del Trinity College di Dublino, la Long Room, l’unico spazio collettivo adatto per l’occasione.
Farrell: abbiamo organizzato l’evento in modo che ognuno nello studio potesse assistere in diretta alla cerimonia. Ci rendevamo conto che l’architettura coinvolge molto più che tre o quattro sensi. Implica l’olfatto, il tatto, la memoria e la presenza fisica. Paradossalmente - in questi strani tempi di contatti sospesi - abbiamo imparato meglio il valore dell’esperienza: si diventa consapevoli dell’importanza di una cosa - anche la più semplice come una chiacchierata casuale con persone che magari neanche conosci - quando questa ti è sottratta.
Credete che questa condizione sia solo una fase di passaggio o l’avvertimento che d’ora in poi saremo costretti a cambiare i nostri modi di vita, la nostra maniera di concepire l’esperienza degli spazi, di usare piazze e strade delle città?
McNamara: ogni periodo di crisi impone cambi d’abitudini per un certo tempo: ma non per sempre, perché alla fine si ritorna alla normalità. È interessante notare che si sono verificati crack di sistema che alla fine possono rivelarsi vantaggiosi per gli architetti. Per esempio, a causa della pandemia, gli agenti immobiliari sono molto incerti sul futuro dell’edilizia commerciale e per uffici: tale incertezza favorisce una nuova concettualizzazione del concetto di adattabilità, spinge a sperimentare le possibilità di sfumare i confini tra interno ed esterno, a incoraggiare nuovi modi di flessibilità. Dalibor Vesely all’University College di Dublino invitava a sbarazzarsi delle tipologie, ritenute troppo rigide per lasciar immaginare alternative. Forse le tipologie sono divenute stereotipi che ci spingono ad accettare le cose come sono senza prospettarne diversi usi o conformazioni.
Farrell: il virus ci ha insegnato che forse le cose non seguono traiettorie lineari e che c’è bisogno di uno sguardo più flessibile e sensibile alla trasformazione e al cambiamento. È ora di pensare a come gli edifici possano reagire in maniera diversificata nelle più diverse situazioni. Spesso facciamo riferimento all’Ospedale Maggiore di Milano, splendido esempio di sostenibilità costruito nel XV secolo. È bello con i suoi cortili e il sistema di circolazione esterna ed è sorprendente scoprire come ancor oggi è perfettamente in uso. È la prova che un edificio ben costruito al suo tempo sulla base di ben ponderate scelte, si rivela un fantastico investimento a lungo termine.
Qualcuno ha suggerito che il futuro delle metropoli va verso un modello di disaggregazione quasi come un arcipelago di piccole città. Cosa ne pensate?
McNamara: ma non è questo proprio il tradizionale modello dei quartieri? Le unità di vicinato dentro la bolla più grande della città: il vecchio modello di quartieri quasi autosufficienti basati su due tipi di mobilità, quella generale dei trasporti urbani e quella particolare delle piccole distanze a piedi. Mi viene in mente un esempio storico che può sembrare un cliché ma che trovo fantastico: le “finestre del vino” nella Firenze afflitta dalla peste, dove servivano un bicchiere di vino ai passanti come forma di conforto.
Farrell: si è sviluppata in questi mesi la tendenza di andare a vivere in campagna o in piccoli villaggi e anche in Irlanda il mercato immobiliare ha registrato un’impennata di interesse per le case isolate. Eppure, anche se la tecnologia ci consente di lavorare da remoto e di essere autosufficienti, rimane il piacere umano di interrelarsi, di intrecciarsi gli uni agli altri, di sperimentare quel tipo di vicinanza che solo la città è in grado di offrire.
Le nuove tecnologie applicate all’edilizia aiutano a ottenere un’architettura migliore?
McNamara: sfruttare la tecnologia più avanzata per verificare la possibilità d’uso di materiali tradizionali è una strada che ci interessa moltissimo. L’industria delle costruzioni ci spinge a rifiutare i vecchi materiali, ma credo che verificare alla luce delle nuove tecnologie il loro grado di adattabilità alla nuova edilizia sia fondamentale per riportare in architettura quei valori tattili che sono caratteristici delle costruzioni in pietra o in terra.
Farrell: in un edificio di terra, i muri non possono essere sottili, altrimenti non riuscirebbe neanche a sostenere se stessi. La terra ha poi bisogno di essere protetta, deve essere curata con attenzione. La produzione industrializzata ci ha emarginati dai processi costruttivi: forse una costruzione di terra - e noi siano creature della terra, frammenti di polvere noi stessi - potrebbe reintrodurci in maniera consapevole in una sorta di coreografia condivisa.