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 2021  giugno 13 Domenica calendario

I rimedi di Marsilio per le anime in pena

Peste, fame, tumulti. Se non è l’inferno, poco ci manca. Cos’è successo a Firenze, così sapiente, bella, serena? E cos’è successo a Marsilio, tanto dotto, ammirato, prudente? «Tre furie vessano senza sosta la misera città», scrive avvilito Marsilio Ficino ad Aldo Manuzio. È il luglio 1497, e il principe dei filosofi si sfoga con il più famoso editore del Rinascimento. 
Il mondo è sottosopra, e in una simile tempesta è impossibile concentrarsi sui libri. La causa? Un demone, anzi una turba di ossessi, che hanno sedotto i cuori, messo le istituzioni a sacco, minato la fiducia nell’ordine e nella giustizia. Il demonio è Girolamo Savonarola e gli indemoniati sono i suoi seguaci, i “piagnoni”, fanatici che dettano legge, spadroneggiano, prevaricano. E dire che qualche anno prima, quando il frate domenicano è salito alla ribalta pubblica, anche Ficino si è lasciato attrarre dalla sua eloquenza e dallo spirito profetico che sembrava ispirarlo. Cambiare tutto, tornare all’integrità della fede, farla finita con le lusinghe dei Medici e del loro corrotto sistema di potere. Questo il messaggio savonaroliano, purificatore all’inizio, catastrofico negli effetti e fonte d’infinite discordie interne.
Chi sfoglia il magnifico volume sul pensiero ficiniano, curato da Raphael Ebgi per Einaudi, si prepari a incontri ravvicinati con le ansie di un’epoca inquietissima. Anima mundi, questo il titolo. Cosa di più filosofico, di più sereno dell’anima cosmica, che fa da mediatrice tra cielo divino e natura mondana? Ci aspetteremmo l’universo rarefatto delle teorie platoniche e invece ci troviamo nel bel mezzo di congiure, guerre, rovesci di fortuna. Il pregio del lavoro di scelta, traduzione e finissima interpretazione, racchiuso in questo memorabile «Millennio», è nella capacità di penetrare nella parte più segreta del laboratorio intellettuale del Rinascimento. Se volete stare alla larga dai guai, se cercate un pensiero consolatorio e “disimpegnato”, dimenticatevi Ficino. E dimenticatevi il Rinascimento. Non leggete Pico della Mirandola, lasciate perdere Lorenzo de’ Medici, non mettetevi a contemplare i quadri di Botticelli o gli affreschi di Michelangelo. Un Rinascimento senza conflitti non esiste, né esiste una pagina sola di Marsilio Ficino, che di quest’epoca è interprete e portabandiera, in cui non vibri la coscienza di un disagio diffuso, oscuro, ineliminabile. Savonarola, con i suoi anatemi, la ribellione e la morte sul rogo, è solo una delle molte stazioni della rinascimentale discesa agli inferi.
Le riflessioni filosofiche di Ficino si avvinghiano come una vite al fusto contorto della politica fiorentina di quegli anni. La rivolta antimedicea del 1466, la congiura dei Pazzi del 1478 segnano altrettanti snodi tematici. Giustamente Massimo Cacciari, nel cui solco Ebgi costruisce la propria via, ha parlato di un Umanesimo tragico. Lo è, tragico, per contrasto e per compensazione, perché è costretto a ripartire, ogni volta, dall’imperio violento della fortuna, dalla mutevolezza delle sorti, dalla malvagità degli uomini, dalla loro inaffidabilità. «L’anima del mondo – scrive Ebgi – è come un mimo, capace di indossare tutte le maschere e ogni figura e di effigiare ogni volto». Questa lettura, che nasce dal recupero filologico di un passo finora frainteso del commento ficiniano al Parmenide platonico, è illuminante.
Per Ficino, e per gran parte del Rinascimento “tragico”, il problema è costruire strumenti ermeneutici ed espressivi all’altezza del misterioso e misteriosamente impietoso “mimo” universale. Ficino ha intuito, come hanno capito i grandi artisti visivi del tardo Quattrocento e dei primi del Cinquecento, che il mimo si traveste di continuo, cambia volto, inganna, illude. Non lo si può certo afferrare con la sola ragione, questo antagonista sfuggente. È necessario affidarsi alla duttilità dell’estetica, al turbinio dei simboli, al fuoco delle emozioni. In altre parole, bisogna calarsi nella notte, farsela amica, conquistarla. È la notte della melancolia che affligge gli intellettuali, a cui Ficino dedica pagine celebri. Ed è la notte del male. «Anche il peccatore (…) è come dipingesse nell’anima, ma non immagini belle, bensì figure deturpate dal male», ci ricorda Ebgi nella sua introduzione. A Ficino queste figure deturpate interessano, eccome. Che il demonio Savonarola lo attragga e lo respinga, in un soffio solo, l’abbiamo capito subito. Ma lo affascinano anche gl’influssi celesti, i talismani, le statue che si animano magicamente. Tutti gli espedienti dell’anti-ragione, che affollano i testi ficiniani, con scandalo degli ortodossi di allora e dei puristi dell’ordine d’adesso, non sono un semplice bric-à-brac pseudo-filosofico. Sono parte costituente di un progetto di fuga. Fuga dall’inferno, naturalmente, rinuncia alla melancolia, affrancamento dalla notte, in cerca del divino, dell’immutabile, dell’Uno, inavvicinabile e inconcepibile. È davvero possibile fuggire? Savonarola lo si può bruciare sul rogo, ma il mimo universale può mai essere eluso, fermato, zittito?
Nelle sue seicento pagine, l’Anima mundi dà più di una risposta a questa domanda. Come in un vaticinio antico, il responso è sfocato, enigmatico. Forse è possibile, forse no. Provate a chiedere a Euridice, nell’attimo in cui Orfeo, che è ormai riuscito a rapirla dall’Ade, si volta a guardarla e la perde per sempre. I contemporanei consideravano Ficino un secondo Orfeo, per la sua capacità di ammaliare e di guarire lo spirito. Ma a ben considerare, lo sguardo di Ficino, e lo sguardo di tutto il Rinascimento, non è quello, smarrito e inutilmente compassionevole, di Orfeo. L’eroina melancolica, la più ficiniana delle protagoniste, è lei, Euridice. A un passo dalla vita, deve rassegnarsi alla notte. E riesce a compiere il miracolo. La trasforma in luce, in arte, in soffice materia divina.