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 2021  giugno 13 Domenica calendario

Biografia di Paolo Bianchini raccontata da lui stesso

Chaplin gli ha tracciato la strada professionale: “Guarda ciò che ti circonda e immagina le vite degli altri”.
Gli orrori della guerra hanno segnato la sua esistenza: “A dieci anni un soldato tedesco mi ha sparato: sono vivo perché la pistola si è inceppata”.
Con Luigi Zampa ha scoperto la magia del set: “Qualcosa di austero, le dinamiche erano molto rigide, si entrava in un’altra dimensione”.
Paolo Bianchini ha 88 anni, quando parla racconta per immagini, per suggestioni, spesso dà riferimenti sul luogo, sugli oggetti, sulle peculiarità fisiche e psicologiche delle persone, proprio come fossero tante piccole sceneggiature.
Lui ha il cinema dentro, tratta la sua vita come una via di mezzo tra il neorealismo del Rossellini di Germania anno zero e una commedia all’italiana magari diretta da Dino Risi. Senza boria, l’io messo da parte, consapevole che la Storia è più grande di noi, eppure registi come Tarantino e Cronenberg lo hanno elevato al ruolo di grande maestro per le sue pellicole western e horror degli anni Sessanta, “e ancora non ne capisco il motivo”.
Eppure è così…
Nasco da una famiglia dove il concetto di pacifismo era fondamentale, quindi era vietato giocare alla guerra: il sabato ero l’unico bambino senza divisa; allora non c’era il termine “bullizzato”, ma io lo ero. E mi vergognavo. Gli altri avevano le bombe a mano, il fucile, io no; (ci pensa) i western sono il mio contrappasso, la risoluzione di una frustrazione.
Come scopre il cinema?
Non ero ancora maggiorenne e Zampa venne a girare sotto casa mia Signori in carrozza: per tutto il tempo sono rimasto in finestra, magnetizzato da quei riti, quei meccanismi, quel racconto. Abitavo vicino a piazza San Giovanni
In quella zona c’era la famigerata via Tasso.
La grande quercia è ispirato alla storia di mio zio, Mariano Buratti, torturato proprio a via Tasso; allora non sapevamo cosa accadesse lì dentro, fino a quando un ragazzino che abitava nel mio palazzo e frequentava il Santa Maria (scuola privata che confinava con il carcere), tornò a casa sconvolto: “Un signore ha scavalcato il muretto e si teneva le budella con le mani”. Ci sembrava incredibile. Così siamo partiti, tutti insieme, abbiamo superato le transenne, e all’improvviso siamo stati accolti da urla atroci provenienti dalla palazzina: “Basta, bastaaaaa”. E davanti al portone due tedeschi che scherzavano. Questo contrasto è sempre nitido davanti a me.
E voi?
Dopo l’arresto di zio abbiamo cambiato casa di continuo, i miei temevano parlasse, perché papà era medico ospedaliero e membro della Resistenza; (ritorna allo zio) una sera accendo la radio e ascolto l’annuncio della fucilazione di dieci “banditi”, così li definivano; l’ultimo nome era “Baratti Mariano”. Mio padre uscì di corsa, con addosso la fascia di medico che gli permetteva di stare fuori nonostante il coprifuoco; poi di notte mi sono svegliato per i singhiozzi di mamma e ho sentito papà che le spiegava: “L’ho visto, massacrato, senza unghie, bruciato con la fiamma ossidrica”; (cambia tono) torniamo al cinema.
Dopo Zampa…
Ho iniziato a frequentare Cinecittà, ma ero minorenne, per questo scavalcavo il muretto grazie al ramo di un fico, e mi infilavo nei vari teatri di posa.
Non strappava mai una parte?
Anni dopo ne Il ferroviere di Germi: interpretavo il fidanzato della Koscina, ma al montaggio hanno tagliato quasi tutto.
Nel frattempo…
Mio padre era partito come medico nei deserti persiani.
Irrefrenabile.
Povere le donne che ha incrociato: oltre ai miei due fratelli ufficiali, ho due sorelle persiane, una francese, un’altra inglese, due italiane, poi è andato in Africa e chissà cosa ha combinato lì. È vissuto fino a 98 anni, e a 96, come ginnastica, restava a testa in giù per un quarto d’ora; la sua partenza, per noi, si è tramutata nella povertà totale: mi piazzavo fuori da un panificio e solo per sentire il profumo del pane e della porchetta.
Nessuno vi aiutava?
Ogni tanto Don Sturzo (fondatore della Dc), nostro vicino di casa; quando ho compiuto 18 anni scrisse una lettera ad Andreotti e per farmi entrare come uditore al Centro Sperimentale. Ero il più giovane di tutti. Lì ho conosciuto Domenico Modugno, Folco Quilici e uno dei professori era proprio Zampa.
Si sentiva in difficoltà?
No, ero una mascotte; un giorno viene Chaplin per presentare Luci della ribalta, aula magna gremita, giornalisti ovunque, e mentre parla guarda dalla mia parte; dopo aver finito inizia un giro di saluti, e quando arriva da me allunga un braccio, mi prende, e mi porta con sé. Tremavo.
E invece…
Dopo un po’ Chaplin si ferma e mi domanda in francese, lingua che conoscevo: “Come vieni qui?” “In tram” “Il tuo primo libro di cinema è quel finestrino là”, e indica proprio un tram. “Guarda sempre fuori, la vita che passa è il cinema; guarda quel vecchietto che cammina e libera il cane”. E inizia a imitare il gesto del guinzaglio; poi finge di aprire un giornale, e aggiunge “magari vive da solo, e quel cane è la sua vita. Chi è quel vecchietto? E quelle due donne che bisticciano dal fornaio, perché? Sono amiche? Una forse ha scoperto che il marito ha una storia con l’altra?”.
Perché proprio lei?
Forse perché ero il più piccolo, e dimostravo meno della mia età; Modugno sapeva della mia situazione economica, e da uditore non avevo diritto alla mensa gratuita, così lui, amico del cuoco, il giovedì di nascosto mi portava la pentola per farmi mangiare un po’ di risotto.
Il suo primo film.
Durante una lezione, Zampa ci parla del suo prossimo progetto: “Questa estate giro a Ostia”. Finito l’anno di lezioni decido di tentare, così parto da casa e a piedi raggiungo il mare.
A piedi?
Non avevo i soldi per il treno, quindi m’incammino dopo cena e arrivo alle tre del mattino; all’alba percorro tutta la spiaggia in cerca del set, ma niente. Per quattro giorni e quattro notti ripeto il percorso, fino a quando trovo Zampa con passo svelto sulla battigia. Lo seguo. Aspetto. E al momento giusto mi avvicino. “Buongiorno maestro”. “Bianchini, che fa qui?” “Sono ospite dello stabilimento accanto”. Parliamo del film. “Come torna a Roma?”. “In treno”. “Se vuole le do un passaggio”. In macchina mi domanda: “Le va di seguire i lavori come assistente?”.
I set di quegli anni.
Durissimi, con regole insindacabili: era obbligatoria la giacca e la cravatta, tutto formale, gli attori trattati da divi, i registi considerati una categoria a parte e noi prede della gerarchia; allora lavorare nel cinema equivaleva a entrare nell’Olimpo.
Ha conosciuto Monicelli: com’era da giovane?
Non rideva mai, parlava poco, era essenziale, tagliente con tutti e aveva già una cultura sterminata. Incuteva soggezione, ma quando girava aveva chiaro ogni aspetto.
E Sergio Leone?
Era aiuto regista di Mario Bonnard in Frine cortigiana d’Oriente, un film in costume girato all’Eur (quartiere di Roma): c’erano le comparse che andavano dal panettiere vestite da antichi romani, o si muovevano in Vespa con in testa gli elmi e sulle spalle il mantello; per controllare che tutto fosse in regola dovevo stare sul set alle sei del mattino, non ci riuscivo, e Sergio capì la situazione: “Dormi da me, ma porta un materasso”.
E…
(Ride) Andai a casa, presi il mio, e salii sul tram, con il bigliettaio che urlava: “Ma ‘ndo vai in giro così?”; la sera mangiavamo il cibo dei cestini rimediati sul set.
Sordi e Manfredi erano dei cultori del cestino.
Con Alberto ho girato sette film, in uno di questi abbiamo convissuto a Viterbo: era in crisi sentimentale, per questo la sera mi coinvolgeva nelle sue nottate da vitellone. Non dormiva mai; (ci pensa) era preoccupato che le donne lo frequentassero per i soldi e la fama.
Per Manfredi, Sordi approfondiva poco i ruoli…
Non sono totalmente d’accordo; per preparare Il vigile siamo stati un mese intero seduti in un bar di piazza Venezia: doveva studiare il pizzardone in ogni suo movimento, da come fischiava alla lentezza nel togliersi i guanti.
Ne Il vigile c’era Vittorio De Sica.
Era sempre se stesso, pacato, elegante: il suo personaggio d’attore rispecchiava la realtà; poi era molto superstizioso, giocava sempre alle corse dei cavalli, e ci dava del lei. Io lo chiamavo “maestro”; era interessante vederlo trattare con gli attori quando era il regista: lavorava battuta per battuta, recitava tutte le parti, e dava indicazioni precise. In quel periodo mi occupavo di cast.
Sceglieva gli attori.
Li consigliavo, e magari li trovavo per strada, come con Giuliano Gemma: scovato dentro la caserma dei Vigili del Fuoco; per portarlo ne Il vigile ho bluffato, ho raccontato che proveniva da una scuola di recitazione e che l’avevo conosciuto in teatro.
Torniamo a Leone.
Al cinema era uscito I sette samurai di Akira Kurosawa, e se ne parlava tanto; una sera andiamo all’ultimo spettacolo, seduti in galleria. Alla fine ci alziamo, Sergio immobile, lo chiamiamo, ma niente. Dopo poco si gira e con aria sognante ci dà la sua visione: “È un grande western”. “Ma che hai visto?”. “È un grande western!”. Proprio in quel momento è nato Per un pugno di dollari (Kurosawa poi lo ha accusato di plagio).
Ci ha lavorato?
No, in quel periodo affiancavo i registi al loro debutto, come Tessari, Patroni Griffi e Manfredi; Nino lo avevo conosciuto da ragazzo, abitavamo uno di fronte all’altro, poi il fratello si era iscritto a Medicina, così studiava con mio padre; un giorno, sotto le nostre finestre, venne a sbattere un carro armato, mio padre aprì la finestra, e i tedeschi per paura di una rappresaglia, spararono verso di noi; poco dopo ho visto Nino e il fratello uscire dal palazzo con il fucile in mano, senza paura.
Come è diventato regista?
Dopo anni un produttore mi offre un copione, lo leggo e rispondo: “Da spettatore non andrei mai a vederlo”. “Che te frega, poi ti farò girare quello che vuoi tu”. Accetto. Era Il gioco delle spie, pellicola che mi ha marchiato: da me volevano solo quel genere.
Ancora non le piace?
Per carità! Però sul set mi sono divertito; poi mi hanno offerto Hypnos, Follia di un massacro, definito da Cronenberg fonte di ispirazione.
Questo lo apprezza?
È una cagata, neanche sapevo di Cronenberg, me lo hanno rivelato in una proiezione all’Università di Siena; quel pomeriggio l’ho visto per la prima volta.
Mai in cinquant’anni?
Esatto; non sono neanche film di serie B, piuttosto di serie Z, girati con gli spezzoni di altre pellicole, poverissimi, che uscivano nei circuiti secondari; eppure ci sono fan che mi scrivono e che cercano in giro manifesti da collezionare.
Il suo Quel caldo maledetto giorno di fuoco è citato da Tarantino.
Un western da spionaggio e con pochi morti: nei miei film non ho mai utilizzato il sangue, mi ricordava la guerra; (cambia tono) quando avevo dieci anni, un giorno stavo vicino all’Idroscalo di Ostia, e un tedesco, dopo avermi picchiato, mi ha sparato di spalle mentre scappavo: quel proiettile mi ha sfiorato l’orecchio, bruciandomi, poi la pistola si è inceppata. Ho impiegato anni per superare lo choc, la notte chiudevo gli occhi e sentivo l’alito di quel militare.
Insomma, Tarantino…
Mi ha chiamato per poter proiettare un mio film a un Festival e a casa ha i manifesti originali; non so perché gli piacciono, non l’ho mai capito.
C’è una sua pellicola che ama?
Il sole dentro (è la storia di Yaguine e Fodè, due adolescenti guineani e il loro viaggio della speranza); (cambia tono) è stato un disastro economico, mi sono impegnato casa, pago 800 euro al mese di mutuo, ma ancora oggi viene proiettato in tutte le scuole d’Italia, e per me è una soddisfazione enorme.
Lei chi è?
Una persona qualunque che conosce il senso della vita.
(Ieri lo abbiamo ricontattato: non si trovano sue foto. “Ne ha qualcuna da mandarci?”. “(Ride) Credo di no, metta una sua immagine”. “Non si può”. “Provo a vedere”)