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 2021  giugno 13 Domenica calendario

La nuova avventura di Paolo Cognetti in Valle d’Aosta

BRUSSON (AOSTA) Dalla montagna scende ancora un freddo minerale, qualcosa che sa di roccia e ghiaccio. «Fino a poche notti fa gelava, e i larici hanno tardato a mettere gli aghi nuovi». Il ragazzo selvatico, Paolo Cognetti, è diventato uno scrittore da un milione di copie ma è sempre lui, con appena un po’ di bianco a contornare il rosso della barba e delle basette. Parole, non troppe ma giuste. Tredici anni quassù. Con i soldi de Le otto montagne, Premio Strega 2017, ha comprato la baita dove vive e la vecchia stalla, che adesso è un rifugio alpino. Dodici posti letto, tra poco si inaugura. «Sarà una residenza letteraria, organizzeremo incontri, seminari, dibattiti, e vorrei venissero a studiarci i ragazzi. Mi piace l’idea che un libro sia diventato una casa». Oltre la porta, l’odore pastoso del legno.
La valle fantasma è stato l’ultimo lembo d’Italia a uscire da zone rosse e arancioni, ma il deserto perdura. Si sente solo il vento ululare nella canna fumaria e nel bosco, là fuori. L’altro suono è l’acqua della fontana che gorgoglia oltre la vetrata della baita di pietre chiare, dove becchetta un uccellino solitario, giallo e grigio. «Un fringuello alpino». Passeggiamo insieme e parliamo del nuovo romanzo, ma prima dei fiori. «Guarda le due diverse tonalità di giallo, quello del tarassaco e quello del botton d’oro». Paolo si china, ma non coglie nulla. «Poi c’è il blu elettrico della genziana e il celeste dei nontiscordardimé. Tra poco, il bianco dell’achillea». Le stagioni incedono con il cambio dei loro colori, forse anche per i libri è così. Quello nuovo s’intitola La felicità del lupo ed uscirà per Einaudi il 26 ottobre. «Racconta di persone che cercano di essere felici e pensano che la montagna sia il luogo di questa felicità».
Il lupo, però, non è una favola. Qui intorno ce ne saranno una ventina. «Sono tornati nel 2016 dopo cent’anni, risalendo dall’Abruzzo in Toscana, quindi sulle Alpi Marittime e infine in Valle d’Aosta. Fa effetto sapere che si aggirano lì fuori, e che per loro puoi essere una comoda preda. Il lupo è intoccabile, libero e nomade. Un poco mi preoccupo per il mio cane Lucky, lupi e cani sono nemici, si avvertono come avversari. In fondo, il lupo è il nostro straniero».
La scrittura ha ripreso forma lentamente, trovando la necessaria densità nel lungo anno di reclusione, non qui ma a Milano: «Il desiderio delle mie montagne lontane è stato fondamentale. Avevo bisogno di ingranare di nuovo, il successo può frastornare e togliere concentrazione. Questa storia mi girava in testa da un po’, serviva il tempo giusto e posso dire che il Covid me l’abbia concesso. Ci sono quattro personaggi, e il paesaggio cambia dentro di loro: Fausto, Babette, Silvia e Santorso. Fausto è un uomo in crisi, appena separato dalla moglie. Lontano dalle vette non è felice. Quando va a viverci, finisce i soldi e si mette a lavorare come cuoco nel ristorante di Babette, nome naturalmente non casuale». Un omaggio al celebre film, a quel pranzo memorabile e alla cuoca rivoluzionaria. «Volevo raccontare le donne dei monti, il loro coraggio, la forza che hanno. Anch’io ho lavorato in cucina, quassù, per potermi permettere la scrittura. La felicità del lupo è un sogno di umana libertà, una sorta di richiamo della foresta». Non per nulla, nel ruscelletto di fronte alla baita, Paolo ha portato qualche sasso dello Yukon, il fiume di Jack London. Però il nume tutelare è sempre Mario Rigoni Stern, sulla stufa c’è la sua fotografia. «Arrivai qui nell’aprile 2008 e lui morì il 16 giugno. Ma come, pensai, io sono appena venuto e tu vai già via, non è giusto. Ho usato Arboreto salvatico come enciclopedia degli alberi: Mario lo scrive con la “a”, perché ciò che è selvatico dona la salvezza». Nominare le cose, le piante, i fiori, le foglie, gli animali, come primo passo per entrare nel mondo. Senza un nome, una cosa non esiste. «Quando sono arrivato qui, ho fatto come Rigoni Stern e ho piantato alberi. L’acero rosso, che vuol dire Canada. Le betulle, cioè la Siberia. E il larice, simbolo delle Alpi. Ci sono le prime gemme, anche se il tempo quest’anno va così piano e il sole ancora non scalda come dovrebbe».
La luce del Mont Nery è vetro che taglia. Paolo prende un’accetta e comincia a spaccare la legna che servirà per cuocere la pasta. Poi pulisce gli asparagi per lungo, con il coltellino. «Sono appena cominciate le riprese del film tratto dalle Otto montagne, il regista è Felix Van Groeningen, il belga che arrivò nella cinquina dell’Oscar con Alabama Monroe nell’anno in cui vinse La grande bellezza.Per oltre due anni ho collaborato alla sceneggiatura e alla ricerca dei luoghi. Il paese è emozionato. Felix ha camminato in lungo e in largo, ormai conosce tutti. Gli attori sono nomi importanti, internazionali, ma ancora non li possiamo rivelare».
Il nuovo romanzo, il rifugio per scrittori, il film. Quando incontrammo Paolo Cognetti cinque anni fa, sarebbe stato impossibile anche solo immaginarlo. «Per tutti ero quello un po’ strano, il tipo che scriveva nella baita. Poi mi hanno conosciuto, mi hanno visto lavorare: diciamo che mi ero finalmente integrato. Il successo delle Otto montagne mi ha trasformato nello scrittore che va in tivù, tutto abbastanza strano anche se bello, comprese le persone che salgono qui a Brusson per conoscermi. Però dovevo ritrovare l’equilibrio, e sono contento perché il nuovo libro mi ha rivelato qualcosa che non pensavo di possedere: una maggiore leggerezza di scrittura, l’ironia, quasi una ventata di aria fresca».
Ci mettiamo a tavola, beviamo acqua di fonte. «Devo sistemare uno spaventapasseri là fuori, altrimenti gli uccellini vanno a schiantarsi contro i vetri del rifugio, qualcuno purtroppo lo ha già fatto». Piccole morti ovunque. «Il lupo non l’ho mai incontrato, le sue tracce invece sì, carcasse di animali, escrementi pieni di pelo: il lupo ingoia tutto». Paolo accarezza il cane. «Non posso chiuderlo dentro, anche lui ha bisogno della sua libertà». L’eventualità del lupo, non solo in montagna è il prezzo che si paga.