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 2021  giugno 13 Domenica calendario

Eni si separa da gas e petrolio

L’Eni si fa in quattro per sopportare i costi della transizione energetica e governarla. Dopo gli idrocarburi norvegesi, condivisi con HitecVision dentro Vår Energi, è in arrivo una paritetica con Bp su quelli in Angola, e si negozia un tris con Alpha Petroleum sulle attività nel Regno Unito. L’azienda starebbe inoltre cercando un partner per replicare il modello in Medio Oriente.
Azzerare le emissioni nette entro il 2050, come stima il piano Eni presentato a febbraio, implica che i giacimenti di petrolio e gas, origine e cuore dell’azienda, sempre più escano dal suo perimetro per divenire società autonome. Il loro destino è finanziarsi sul mercato, pagando dividendi che consentono a un’Eni più “leggera” di salvaguardare i propri, e liberare capitale da destinare ai business più futuribili sgravando un debito che, complice il Covid, è risalito al 31% del patrimonio. Una strategia complessa, perché la redditività, come per tutte le major, è ancora legata al petrolio e ai barili. Scorpori e collaborazioni non sono inediti: dalle partnership per sviluppare i grandi giacimenti alle separazioni “politiche” da Italgas, Snam, Saipem. Ma ora è diverso, perché le motivazioni che partono dalla finanza si saldano al modello di business. Eni investe 7 miliardi di euro l’anno, e lo farà nei prossimi 30 per traguardare la neutralità carbonica.
Fino a pochi anni fa quasi tutto andava agli idrocarburi, fonte degli utili. Oggi un 20% della quota “incardina” la transizione energetica, ed Eni stima che il loro peso salga al 40% nel 2030 e al 70% nel 2040. Tuttavia, oltre alla minor redditività nello scambio, non è facile concorrere nelle energie del futuro con rivali che godono di tariffe regolate, o che il mercato valuta dal doppio al triplo: in Borsa le major quotano 4-5 volte il margine operativo lordo, le rinnovabili girano tra 10 e 15 volte (ma la “bolla” potrebbe essere alle porte: da gennaio la nicchia ha perso un terzo del valore). Un divario che non esorta a strapagare attività “green” per vederle poco dopo svalutate sotto l’ombrello Eni. L’azienda di Claudio Descalzi pare più propensa a farsele per gradi e in casa, valorizzando sul mercato quelle che già detiene; nel frattempo accelera gli incassi dagli idrocarburi, liberandosi del loro debito in conto capitale e dei costi operativi.
Il gioco di scatole è duplice. Per le attività a rapida crescita – come le rinnovabili – si punta a vendere quote di minoranza, da collocare in Borsa o a terzi, per scontare utili futuri e velocizzare la crescita di questi business, come richiedono gli impegni presenti e le prescrizioni future se si vorrà limitare a 1,5 gradi il riscaldamento globale. L’ultimo esempio, di quattro mesi fa, riguarda la cessione di un 25-30% circa della società che unisce “Eni gas e luce” e le rinnovabili, che tra circa un anno farà incassare fino a 3 miliardi al gruppo, e permetterà di integrare i due business, vendendo a 11 milioni di clienti Eni gas ed elettricità da rinnovabili, così da stabilizzarne prezzi e approvvigionamento. Successivamente altre “valorizzazioni” potrebbero profilarsi: nell’ambiente si guarda alle tecnologie proprietarie Eni, che da catalizzatore di attività storiche stanno diventando lo snodo della transizione, e atte a molteplici usi anche esterni. Nei settori “maturi” a crescita lenta degli idrocarburi, invece, le compartecipazioni sembrano la strada. «L’industria è scossa da un cambiamento secolare e impetuoso – spiega Francesco Gattei, direttore finanziario Eni –. In uno scenario di prezzo strutturalmente basso ci troviamo a dover finanziare la transizione, gli idrocarburi, le rinnovabili, e un R&S che abiliti il tutto. Per questo siamo interessati a creare veicoli operativi che si finanzino più efficacemente sul mercato e ci paghino dividendi, liberando capitale per la crescita dei nuovi business». Queste società ad hoc tra l’altro fanno leva sulle riserve, quindi possono raggiungere tassi di indebitamento anche doppi rispetto all’Eni, legata anche al rischio Italia, e con un rapporto debito/patrimonio che la dirigenza, in sintonia con gli investitori, non vuole aumentare. Quanto poi al destino delle società oggi al varo, con governance e assetti condivisi, nessuno può dire davvero se tra qualche anno saranno ancora tra le zampe del Cane.