Quando è accaduto l’ultima volta?
«Qualche giorno fa ero a Marina di Pietrasanta, cenavo in un ristorante all’aperto. Dunque, ero concentratissimo. Mi arriva una chiamata sul cellulare: è Adriano.
Alza gli occhi, mi dice. Mi scruto attorno ed eccolo là, proprio nel locale di fronte a quello in cui sono io, meno di cinquanta metri di distanza. Ci sentiamo dall’odore».
Con quale sostanza si è cementata la vostra amicizia?
«Dalle nostre reciproche debolezze. Ci siamo sorretti a vicenda, forse completati. Lui era troppo bello, io troppo normale. Io costruivo il punto, lui lo chiudeva con l’ultimo tocco e si beccava gli applausi.
Eppure ci siamo anche presi a botte, e parecchio».
Avete condiviso pure le idee politiche?
«No, lui diceva di essere socialista, io sono un liberale, mi piaceva Malagodi. Insomma, sto ancora nel campo del centrodestra, moderato s’intende. Nei ritiri di Davis Panatta si presentava la mattina con l’Unità e la infilava sotto il piatto di Belardinelli, che pigliava il giornale, glielo tirava addosso imprecando: maledetto, vuoi proprio mandarmi di traverso la colazione».
Nel ’76 siete entrati nella storia vincendo a Santiago contro il Cile di Pinochet l’unica coppa Davis azzurra, a dispetto delle lacerazioni politiche che divisero l’Italia. Ricorderemo per sempre i nomi dei magnifici quattro guidati da Nicola Pietrangeli: Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli. I quattro moschettieri di Dumas o i quattro di Liverpool?
«I Beatles, senza dubbio. Adriano era John Lennon, io Paul McCartney, Corrado George Harrison e Tonino Ringo Starr».
Però non andavate d’accordo.
Negli allenamenti atletici lei e Adriano correvate su un lato del campo, Barazzutti e Zugarelli sul lato opposto. Perché?
«Eravamo diversi, caratteri inconciliabili. Eppoi il tennis è uno sport di forte individualismo, lo spirito di squadra rappresenta un’eccezione».
Nessuna réunion, rapporti che rimangono anche dopo la fine della carriera?
«Non nel mio caso perlomeno.
Lavoro per Sky, quando sono in giro per commentare i tornei magari incontro Borg, Wilander e McEnroe, parliamo di giovani tennisti, della resistenza di Djokovic e Nadal, se Federer riuscirà ancora a stupirci a 40 anni, mai del passato, come se non avessimo memoria. Ci interessa solo il presente, vecchia regola di questo sport: pensa al punto che devi giocare non a quello che hai appena perso».
Lei smise presto, a 32 anni, nel 1983. Che cosa fu a convincerla?
«Il dolore e la noia. Il nostro corpo ci parla. Mi svegliavo tutte le mattine con la schiena e le gambe a pezzi, ogni muscolo che bruciava. Ero stufo di preparare borse, prendere aerei, saltare da una stanza d’albergo a un’altra. Troppa solitudine. Eravamo stati dei pionieri, ma il tennis romantico era agli sgoccioli, persino il clima negli spogliatoi stava cambiando. Così nell’82 decisi che avrei fatto ancora un anno di circuito e poi basta. E programmai con metodo e in anticipo un altro giro».
Quale?
«Contattai giudici, presidenti di circolo, maestri e raccattapalle che avevo conosciuto in tutt’Italia e chiesi loro di prenotarmi i migliori alberghi e ristoranti da Aosta ad Aci Trezza. Posti di cucina tradizionale. Mi misi in viaggio da solo e fu una liberazione, un orgasmo lunghissimo. Da Aosta ad Aci Trezza, promessa mantenuta: in un mese ingrassai di undici chili e due etti».
Nessun rimpianto?
«Nessuno. Avevo cantato alla Scala del tennis, non mi andava, con tutto il rispetto per la provincia, di esibirmi un po’ bolso e spelacchiato nei piccoli teatri».
Dica la verità, in fondo si arrese alla sua pigrizia.
«Balle, respingo l’accusa di indolenza. Possedevo due talenti naturali: il rovescio e la velocità di piedi nei primi tre metri, ero il migliore al mondo in questo. Ma quanto mi toccava affrontare partite sui cinque chilometri andavo in crisi, la mia autonomia durava un’ora o giù di lì, scoppiavo anche sul piano mentale. È la ragione per la quale ho fatto fortuna nel doppio».
Chi fu il primo a chiamarla Pasta Kid?
«Bud Collins, firma del tennis al Boston Globe. Gli bastò vedermi una volta. Mi piacque, mi specchiavo in quella definizione.
Ero goloso e vorace, allora la qualità del cibo non mi interessava, ero per la quantità. Adesso è tutto un fiorire di libri e trasmissioni tv, chissà se è davvero un bene, Sono affezionato alle ricette antiche e popolane».
A quali sacrifici si è sottoposto nella sua vita di atleta?
«Alla fame. Non esistevano tabelle nutrizionali. Mi ricordo che ci sono stati giorni nei quali bevevo solo due litri di pompelmo spremuto, mi pesavano ogni mattina come i pugili. Non potendone più proposi un patto a Belardinelli: per ogni partita che vinco in Davis voglio in cambio un piatto di pasta e fagioli con i maltagliati come premio.
Accettò».
Lei cucina?
«Assolutamente no. Mi siedo a tavola e basta. Ho altre due preferenze: la pappa con il pomodoro e la ribollita».
Sta per toccare il traguardo dei 70 anni, le pesa il tempo?
«Bisogna sapersi accontentare.
Sono in salute, abito a Verona con Lilli, stiamo assieme da undici anni, lei si occupa di moda, ci interessa l’arte contemporanea: Marc Quinn, Sissi, Gaetano Pesce, Marco Lodola, Zaha Hadid, Armand Pierre Ferdandez. Verona è una città bellissima che assomiglia alla mia Firenze, d’estate trascorro due mesi sul mare di Forte dei Marmi dove sono nato. Mia figlia Irene, che chiamai così in onore dell’attrice greca Irene Papas, si occupa di cavalli e salto ad ostacoli. La mia mamma è una vivace novantenne, l’unico grande dolore è stata la morte di papà avvenuta dieci anni or sono».
Come ha superato l’anno trascorso in ostaggio del Covid?
«L’ho accettato con disciplina, ma non so se usciremo migliori da questa tragica esperienza. Non nutro grandi aspettative dall’animo umano. Qualche settimana fa non ne potevo più di vivere segregato, ho chiamato Panatta e gli ho detto: Adrià, vengo a Treviso a trovarti, preparami qualcosa da mangiare.
Sa, è come se fossimo sposati dall’età di sedici anni».
Gioca ancora a tennis?
«Neanche per sogno. Mai più preso una racchetta in mano dal giorno del ritiro. E non mi chieda fotografie, ho buttato tutto».