Eccolo, Giovanni Brusca nel segreto della sua cella, che dopo 25 anni ha lasciato due settimana fa, perché ha finito di scontare il debito con la giustizia. «Ho incontrato una persona che mi sembra lontana da quella che ha fatto scorrere tanto sangue in passato. Ma io non sono il suo difensore d’ufficio — tiene a precisare don Marcello — racconto solo ciò che ho sentito e visto nella terra dei maledetti da tutti. Ognuno poi valuti».
Cosa vi siete detti la prima volta?
«Aveva letto il mio libro, “Ho incontrato Caino”, in cui racconto le storie di alcuni pentiti con cui ho dialogato, uno degli ultimi è stato Gaspare Spatuzza. Brusca disse che era d’accordo con me: per vincere la mafia bisogna confiscare non solo i patrimoni, ma gli stessi mafiosi, strappandoli all’organizzazione. Abbiamo continuato a incontrarci».
Che uomo ha conosciuto in carcere?
«Un giorno, mentre stava raccontando di una delle sue vittime, si è messo le mani sul viso e non ha più parlato. In quel lungo silenzio ho colto la fragilità di una presa d’atto e un suo profondo ripensamento interiore».
Come ha iniziato a parlare della sua vita prima della collaborazione?
«La racconta come qualcosa che è andata così. E non cerca giustificazioni, non se la prende con il destino. Parlando di San Giuseppe Jato e di suo padre mi ha detto: “È come se avessi vissuto in un altro Stato, con una mentalità diversa. Quella era la mia vita”. E ha cominciato a raccontarmi di quando era bambino. Non si nasce mostri. Gli piaceva studiare, ma a dieci anni lo ritirarono dalla scuola e lo mandarono a lavorare nei campi. Quando fu un po’ più grande, venne incaricato di fare il vivandiere ad alcuni latitanti».
Come parla Brusca dei suoi crimini?
«È stato il momento più difficile del nostro dialogo. Per chi raccontava e per chi ascoltava. Vorrei tenere per me le cose che ha detto, anche per rispetto al dolore dei familiari delle vittime. Però, posso dire che quando parla di Falcone, dice sempre “il dottor Falcone”».
Con che parole le ha raccontato la sua scelta di collaborare?
«Mi ha detto: “Non c’è stata alcuna folgorazione sulla via di Damasco. È accaduto piuttosto che dopo le stragi sentivo il peso di quello che era accaduto. Non riuscivo più a vivere così”. La gente diceva dei mafiosi: sono persone senza onore. Ha aggiunto: “Ero stanco di quella vita, si stavano anche incrinando i rapporti all’interno di Cosa nostra”».
Eppure, all’inizio, provò a depistare i magistrati.
«Anche su questo, Brusca è schietto. Mi ha detto che all’inizio è stata una collaborazione travagliata. Poi, con il passare del tempo, ha messo da parte il suo orgoglio. E ha dato l’onore delle armi allo Stato. Mi ripete spesso: “Con me lo Stato ha vinto”».
Incontra collaboratori di giustizia ormai da 21 anni. Tutti sinceramente pentiti?
«Io faccio il prete, non il magistrato che deve cercare i riscontri alle dichiarazioni. Il pentimento riguarda la parte più intima delle coscienze, ma negli anni ho imparato a intuire quando i percorsi non sono autentici. Tanto è vero che con molti non mi vedo più. Se devo accompagnare un percorso va bene, se devo essere usato no ».
Alcuni mafiosi dicono di essere dissociati da Cosa nostra e chiedono permessi premio. Cosa ne pensa?
«Nel vangelo io leggo: “Non si può amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede”. Ecco, io non so cosa significa restituire dignità a Dio, ovvero chiedere perdono, senza restituire dignità agli uomini, ovvero dire la verità. Bisogna parlare chiaro con i mafiosi e dire che la misericordia e la giustizia sono due facce della stessa medaglia».
Il Vaticano l’ha chiamata a fare parte, assieme a don Ciotti e all’ex procuratore Pignatone, di una commissione per la scomunica ai boss. Su cosa state lavorando?
«Stiamo provando a mettere per iscritto, nei testi della Chiesa, i pronunciamenti degli ultimi pontefici, da Papa Wojtyla a Papa Benedetto, fino alla scomunica chiaramente espressa da Papa Francesco».
Cosa pensa delle polemiche arrivate dopo la scarcerazione di Brusca?
«Rispetto il dolore dei familiari delle vittime. Ma nel dibattito pubblico ho visto emergere anche il mostro della vendetta. E mi spiace che quando si parli di Brusca, come di altri collaboratori, vengano usati sempre verbi al passato».
I familiari del piccolo Di Matteo, il figlio del pentito rapito e ucciso, hanno accusato Brusca di non aver mai scritto un biglietto di scuse.
Perché non l’ha fatto?
«I collaboratori, quelli veri, sentono forte il bisogno di chiedere scusa, perché più prendono coscienza del male fatto, più si condannano ad un tormento infernale per i sensi di colpa. Ma, al contempo, hanno paura che il gesto di chiedere scusa possa essere visto come strumentale.
Insomma, vivono un grande imbarazzo. Mi pare però che Brusca abbia chiesto scusa nel corso dei processi, anche se capisco che questo non potrà mai bastare. Però, ha avuto modo di incontrare in carcere la sorella di una delle vittime della mafia, Rita Borsellino».
Cosa accadde in quell’incontro?
«Brusca uscì sconvolto, spiazzato da quel dialogo. Si trovò davanti una persona che non gli faceva il quarto grado, gli chiese della sua famiglia.
Non era abituato a tanta umanità».
Brusca ha un figlio che oggi ha 30 anni. Che rapporto ha con lui?
«È un rapporto importante, di grande premura e tutela».
Cosa farà adesso l’ormai ex padrino delle stragi che si è lasciato alle spalle 25 anni di carcere?
«Per lui è un salto nel buio e una scommessa. Abbiamo detto che faremo qualcosa insieme, ma non so ancora dove porterà questo percorso. Di sicuro, l’uomo che entrò in carcere nel 1996 fa aveva le mani sporche di sangue. Quello che è uscito, ha riconosciuto la vittoria dello Stato».
Cosa le ha spiegato della mafia oggi?
«Brusca ripete che non bisogna abbassare la guardia, perché da quello che coglie leggendo i giornali, l’organizzazione Cosa nostra è in continua evoluzione. Dice soprattutto che se non seguiamo le direttive lasciate dal giudice Falcone, la mafia potrebbe tornare a vincere».