Corriere della Sera, 13 giugno 2021
Su "L’ultimo della classe. Archeologia di un borghese critico" di Andrea Carandini (Rizzoli)
È difficile trovare in tutta la storia dell’editoria italiana qualcosa di analogo a questo libro di Andrea Carandini (L’ultimo della classe. Archeologia di un borghese critico, Rizzoli, pp. 785 più 94 illustrazioni). Avete letto bene: 785 pagine, ma il punto non è questo. È che si tratta di un volume singolarissimo che solo apparentemente è un’autobiografia, poiché in realtà racchiude almeno tre o quattro libri o forse anche di più. Per cominciare la storia di una vita, come è ovvio (sia pure con relativo, smisurato, retroterra familiare minutamente ricostruito anche con intere pagine di diario di suoi componenti; ma non solo, si vedano ad esempio le cinquanta righe dedicate all’elenco particolareggiatissimo delle medicine assunte attualmente ogni giorno dall’autore); poi un saggio sulle vicende di una disciplina — la storia di Roma e l’archeologia nella particolare sua declinazione in cui l’autore è diventato un maestro (incluse aspre e circostanziate polemiche con i seguaci delle declinazioni diverse dalla sua); quindi un’articolata meditazione spirituale sull’esistenza, attraversata di continuo dall’esperienza della psicoanalisi (con puntuale descrizione di sogni e relative considerazioni dello psicoanalista che ebbe in cura lo stesso Carandini); ancora: un saggio sulla storia civile italiana con amplissime digressioni che spaziano da Leopardi a Tocqueville, a Berlin. Si aggiunga, per buona misura, un numero di pagine sufficienti a redigere un trattatello sull’arredamento e almeno un altro sull’abbigliamento; infine, per chi riesce ad arrivare fino in fondo, non mancano due lunghe appendici: e sono sicuro di aver dimenticato qualcosa.
Eppure, a dispetto della mole mastodontica e di un certo disordine espositivo (ah la perenne latitanza dell’editing nell’editoria italiana!), si tratta di un libro da leggere, di un libro importante: uno di quei libri che testimoniano a loro modo il mutamento di atmosfera generale di un Paese, un cambio d’epoca della sua vicenda storica.
Da tutte queste pagine infatti spira un’aria, ma che dico, un vento, un’invocazione perentoria a un rétour à l’ordre. Proprio da parte di chi, questo è il punto, a suo modo è stato invece per anni, per sua ammissione, un fautore del «disordine». Ecco allora dunque l’invocazione a farla finita con la demagogia egualitaria, con il conformismo del politicamente corretto, con il consumismo analfabeta, con l’universalismo «che ignora l’individuo», con il relativismo morale: insomma al ripudio più fermo dei tratti dell’atmosfera dominante. E insieme, per converso, ecco invece l’auspicio appassionato, benissimo e lungamente argomentato, di un Paese capace di riscoprire il merito e le competenze, l’etica della responsabilità, la serietà degli studi, i valori antichi dell’identità («il più sostanziale dei bisogni umani») e perfino della Patria («Italia in ginocchio in piedi» s’intitola un paragrafo: opportunamente senza punto esclamativo a scanso di antipatiche reminiscenze). Insomma pagine che a ragione potrebbero avere come titolo «La ribellione (e il ritorno) delle élite».
Perché se c’è uno che dell’élite ha fatto davvero parte (di quella vera, non degli sputtanatissimi «poteri forti» puntualmente evocati dall’attualità italiota) questi è sicuramente Andrea Carandini: figlio di un nobile piemontese e di una figlia di Luigi Albertini — il mitico direttore del «Corriere della Sera» costretto dal fascismo a cedere la sua quota di proprietà del giornale per punirlo della battaglia ingaggiata contro il regime. Si è trattato peraltro di un’élite abbastanza particolare. Di un esiguo gruppo sociale, altoborghese e aristocratico insieme (con gli Albertini i Casati, i Papafava, i Morra di Lavriano, gli Jacini e pochissimi altri): un gruppo straordinariamente agiato, proprietario di ville ai Ronchi e a Cortina, di case dappertutto, accudito da balie, cuochi e autisti, circondato da quadri di Canaletto, da letti Impero, da alzate Biedermeier e giade preziose — che tuttavia, a differenza di tanti altri suoi simili, negli anni tra le due guerre si fece un punto d’onore nel restare fedele a certi valori di eleganza e di decoro, agli ideali della cultura nonché al retaggio liberale trasmessogli dal Risorgimento tenuto desto dallo sprone crociano. E fu antifascista essenzialmente per ciò: perché lo fu nell’intimo, lo fu quasi più e prima per ragioni stilistiche che politiche. E proprio perché rimasto antifascista è accaduto anche che esso abbia rappresentato l’unico quarto di aristocrazia di cui ha potuto fregiarsi (e in rare occasioni, almeno all’inizio, anche servirsi) la Repubblica democratica .
Il libro di Carandini restituisce minutamente il clima morale e culturale di un tale ristretto ambiente, l’anglofilia nelle piccole e nelle grandi cose, la douceur de vivre, ma anche l’intenso impegno pubblico nel dopoguerra italiano. Un impegno all’insegna di un liberalismo autentico, tutt’altro che conservatore ma neppure disposto a cancellare le importanti differenze rispetto alle impostazioni avventurosamente democratiche tipiche dell’azionismo (si leggano contro di questo le dure pagine di diario di Elena Albertini qui riportate). È l’ambiente, come si sa, dal quale venne per tanta parte, l’esperienza giornalistica del «Mondo» e dei suoi «Amici», ed è lo stesso a cui si deve la nascita di associazioni come «Italia Nostra» e poi il Fai.
Si è trattato di un ambiente che, sebbene avesse come matrice anche la componente aristocratica di cui ho detto, ha tuttavia dato origine a un’élite sostanzialmente borghese: quella «borghesia critica», come la chiama Carandini, che continuamente oggi la evoca e la invoca nel suo libro. Senza mai porsi con la necessaria chiarezza, però, un problema a mio avviso cruciale. Senza mai chiedersi cioè come mai una tale élite non sia mai arrivata a divenire neppure in minima parte classe dirigente del Paese aiutando a reggerne quindi le sorti. O forse egli se lo è chiesto e ce ne dà la risposta implicita per l’appunto nel racconto della sua vita (e proprio nel bisogno di trovare siffatta risposta sta probabilmente anche un’origine di questo libro). Non poté esserci dunque quel passaggio alla classe dirigente perché a un certo punto, negli anni Sessanta — che si riconfermano il decennio chiave del Novecento italiano — i figli di quell’élite l’abbandonarono in gran numero e stanchi di etichette da rispettare, di pulsioni vitali da reprimere e forse anche perché sazi dei troppi agi, decisero di passare all’altro lato della barricata. Fiutarono l’aria dei tempi. Si allontanarono dai salotti aviti dei genitori, dove gli pareva che un mondo agonizzasse, e se ne andarono a vivere a Trastevere, attaccarono alle pareti dei loro appartamenti (peraltro sempre di ottimo gusto) dei grandi ritratti di Mao, finsero di aver così compiuto un salto di classe, e si iscrissero al Partito comunista. Come per l’appunto ci dice di aver fatto l’autore di questo libro: «Vedevo nel proletariato, scrive, l’unico erede plausibile della borghesia». Anche se oggi lui stesso riconosce con encomiabile sincerità che si trattava di un caso emblematico di «complesso d’inferiorità nei confronti del marxismo e del comunismo».
Quella che ci viene offerta nelle molte pagine che seguono è la testimonianza preziosa circa uno snodo decisivo della vicenda del Paese, una testimonianza che spiega perché l’Italia ha perduto, o meglio sprecato, trent’anni della sua storia. Accadde all’inizio dei Sessanta, infatti, che una parte significativa della borghesia — proprio quella in certo senso migliore — passasse per l’appunto sotto l’egemonia della sinistra rappresentata dal Pci. Politicamente parlando si trattava dell’egemonia dell’inerzia, data l’inconsistenza della strategia di quel partito, paralizzato fino alla fine dal suo legame con la satrapia sovietica; culturalmente invece era un’egemonia multiforme e di amplissima portata. Tale comunque, con l’aiuto dell’aria dei tempi che spirava in tutto l’Occidente, da disancorare quel gruppo sociale borghese dalle idee e dai principi che erano stati fino ad allora i suoi e, per dirla alla buona, da riempirgli la testa per anni di tutto il repertorio del pandemocraticismo universale all’insegna del pas d’ennemis à gauche. In tal modo rendendolo di fatto inservibile per l’avvenire del Paese.
Oggi Carandini vede lucidamente quale è stato l’esito di quella secessione da parte dell’élite colta e ciò che ha comportato: «l’abbandono del liberalismo riformistico europeo» e al suo posto la diffusione di un «azionismo di massa». E vede in Eugenio Scalfari e nel suo giornale una sorta di pifferaio magico di questa marcia verso il nulla; o meglio, più che un pifferaio, per usare le sue dure parole, «un libertino, un gaudente da Grand Hotel, un corsaro… il tutto privo di gravitas e di compostezza»: al quale , egli osserva, si deve l’aver favorito «qualsivoglia movimento/cambiamento, legittimato come necessario alla modernizzazione, dimenticando che la democrazia si regge su due gambe e non su una: quella che con successivi calcetti ha spinto in avanti il pallone della demagogia poi degenerata nel populismo».