Corriere della Sera, 12 giugno 2021
Il 51% degli italiani è per il blocco dei licenziamenti
Da vent’anni il tema occupazionale si colloca al primo posto nella graduatoria delle priorità degli italiani. A fine maggio il 61% alla domanda «qual è il problema principale del Paese?» menzionava il lavoro. Non stupisce quindi che nel sondaggio odierno l’ipotesi di porre fine al blocco dei licenziamenti veda prevalere i contrari (51%) rispetto ai favorevoli (28%): i primi ritengono che la crisi sia ancora forte e tutti i lavoratori vadano tutelati, mentre per i secondi l’economia sta ripartendo ed è necessario ritornare alla situazione pre-pandemica. Le opinioni variano in misura significativa in relazione alla condizione professionale e agli orientamenti di voto: i lavoratori dipendenti, i disoccupati, le casalinghe e i pensionati più favorevoli alla proroga, gli autonomi più contrari mentre i ceti dirigenti sono divisi. La frattura è molto netta anche tra gli elettori di centrosinistra e del M5S che preferirebbero il mantenimento del provvedimento e quelli di Lega e FI che si dichiarano contrari, mentre gli elettori di FdI si dividono.
Il giudizio favorevole alla misura sale al 59% quando si chiede un parere sulla scelta di adottare il blocco lo scorso anno, dopo lo scoppio della pandemia; al contrario il 18% ritiene che sia stato dannoso per la competitività delle imprese e, quindi, anche per gli stessi lavoratori. Il consenso prevale tra tutte le categorie professionali e gli elettorati, pur in presenza di una quota più elevata di critici tra gli imprenditori (34%), gli autonomi (28%), gli elettori di Lega (31%) e FdI (29%).
Quasi un italiano su due (47%) prevede che verrà adottata una soluzione di buon senso, cioè il blocco verrà tolto nella maggioranza dei settori e verrà mantenuto solo per quelli maggiormente in difficoltà, mentre il 16% ritiene che verrà prorogato per tutti e il 14% al contrario pensa che verrà eliminato per tutti.
Oltre ai temi contingenti relativi alla situazione sanitaria, economica e occupazionale, il Paese sta dando avvio al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), una straordinaria occasione per adottare misure e riforme che consentiranno di affrontare alcuni nodi strutturali e porre le basi per costruire l’Italia del futuro. Al momento solo un italiano su venti (5%) ha avuto modo di seguire con attenzione i contenuti del piano, uno su tre (34%) dichiara di avere seguito solo qualche notizia.
Il Pnrr è articolato in una serie di progetti, investimenti e riforme suddivisi in 6 diverse aree d’intervento specifiche. Nel sondaggio si è chiesto agli intervistati di indicare le due più importanti: al primo posto si colloca l’area della salute (citata dal 47%). Al secondo troviamo l’istruzione e la ricerca scientifica (27%), a seguire tre aree giudicate sostanzialmente allo stesso livello di importanza: l’inclusione e la coesione sociale e territoriale (22%), la digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (21%) e la rivoluzione verde e la transizione ecologica (19%). Chiude, leggermente più staccata, l’area delle infrastrutture per una mobilità sostenibile (17%). Quanto alla fiducia nel fatto che la realizzazione degli interventi previsti dal Pnrr conduca l’Italia su un percorso di crescita economica sostenibile e duratura gli italiani si dividono nettamente: il 43% si dichiara poco e per nulla fiducioso, mentre il 40% esprime molta o abbastanza fiducia. I più fiduciosi sono gli elettori del Pd (71%) i più scettici gli astensionisti (50%).
Dunque il Pnrr deve fare i conti con lo scetticismo ad oggi di poco prevalente e il rischio di impopolarità delle riforme. È noto che riformare significa indurre i cittadini a cambiare le proprie abitudini e non di rado rinunciare a diritti acquisiti. Per scongiurare questo rischio appare quanto mai opportuno non solo ricordare che i finanziamenti europei sono vincolati allo stato di avanzamento delle riforme, ma soprattutto provare a raccontare gli effetti di questo importante e complesso processo di cambiamento, facendo intravvedere quale sarà l’approdo e quale Paese avremo tra 10 anni e potremo consegnare alle generazioni future. Insomma, per ottenere fiducia bisogna indicare la meta, nella consapevolezza che dobbiamo uscire dal «presentismo permanente» degli ultimi lustri.