La Stampa, 12 giugno 2021
Emanuele Trevi parla dello Strega
Il day after dello Strega, ancora a Benevento dove è stata decisa la cinquina, sconta qualche nervosismo mentre vinti e vincitori si incontrano a colazione. Emanuele Trevi, però, non ne sembra affatto contagiato: primo tra i finalisti con Due vite (Neri Pozza), biografia per interposto autore di Pia Pera e Rocco Carbone, due indimenticabili amici scrittori prematuramente scomparsi, ha raccolto 256 voti e fa semmai qualche scongiuro, perché gli accadde di trovarsi nella stessa pozione quando concorse nel 2012. Era il favorito con Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie), ma perse per due voti contro Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi di Alessandro Piperno (Mondadori).
Per il resto, i risultati danno ragione, ci dice, a quel che ha sempre pensato come critico e soprattutto scrittore: «Sono molto contento perché si premia anche la durata di un libro, posto che il mio è addirittura del maggio 2020, uscito in piena pandemia. Ho sempre pensato che occorra liberarsi della dittatura della novità, anche se noi giornalisti non facciamo altro che inseguirla, per necessità. Ma un libro ti può chieder cinque anni di scrittura, avrà pur diritto a vivere un po’ più d’un anno…».
Diciamo che non sempre succede
«E quando accade è un bel segnale. Sottolinea il fatto che i premi come lo Strega sono un lievito, che agisce però su una pasta di una certa qualità. I libri devono essere già entrati nella coscienza della società letteraria, affrontando temi che i lettori in qualche modo abbiano sentito come propri. Esiste una reciprocità: il premio riconosce lo scrittore, lo scrittore porta sé stesso e il proprio lavoro, ma anche la propria statura, al premio. Vale anche in altri casi: per esempio, io non credo che Elena Ferrante sia diventata popolare in America perché la leggeva Hillary Clinton, come è stato detto. Al contrario, Elena Ferrane è arrivata anche alla Clinton e ha arricchito la sua figura di lettrice. La stessa reciprocità vale per gli altri quattro finalisti».
Ricapitoliamoli: dopo di lei, Edith Bruck, Il pane perduto (La nave di Teseo), Donatella Di Pietrantonio, Borgo Sud (Einaudi), Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani) e Andrea Bajani, Il libro delle case (Feltrinelli). Dal secondo al quinto, distacchi minimi. Chi teme di più?
«Diciamo pure che in questi casi temo tutti, ma in particolare gli autori che per certi versi mi somigliano, come Andrea Bajani: che ho sempre apprezzato, seguito, recensito, direi compreso profondamente. Anche le tre scrittrici affrontano temi importanti: Bruck con un meraviglioso monumento alla memoria e Di Pietrantonio con un personaggio che è già stato molto popolare tra i lettori, mentre la Caminito come autrice è già il futuro. Non so fare previsioni, anche perché la composizione della cinquina non mi stupisce affatto. Riesco a capire i motivi per cui un libro è stato scelto, semmai mi sfuggono quelli per cui altri sono stati esclusi. Lo Strega del resto, con 660 votanti, è diventato imprevedibile, si sottrae ormai alle alchimie editoriali. Il sistema di voto, che prevede tre preferenza quando si decide la cinquina ma una sola, secca, quando è questione del vincitore, mi sembra perfetto: in termini politici sarebbe come dire che prima c’è il proporzionale e poi il maggioritario».
E in altri termini, qualcuno penserà che la cinquina le ha sottratto l’avversario più temibile. Tutti i retroscena di questi mesi davano per favoritissimi lei e Teresa Ciabatti (Sembrava bellezza, Mondadori). Che invece è rimasta fuori. È curioso come proprio il gigante di Segrate non vinca da quel lontano 2012 che lei ricorda così bene. Da allora semmai è toccato all’Einaudi, che fa parte dello stesso gruppo, addirittura tre volte sul podio del Premio. Ha provato a darsene una spiegazione?
«Posso solo ribadire quanto osservavo prima: lo Strega è sempre più imprevedibile. Per questo mi piace. E poi non va dimenticato che si partecipa sempre sulla base di un successo: di critica, di stima, di pubblico, piccolo e grande ma già acquisito. Essere esclusi da uno o più premi (come per esempio è accaduto quest’anno ad Aurelio Picca, scrittore che apprezzo moltissimo) non è di per sé scandaloso. L’importante è non farne un valore simbolico, vederlo come un’umiliazione della propria creatività».