La Stampa, 12 giugno 2021
Tigray ostaggio della fame
L’arte di prendere ostaggi è in costante evoluzione. Ci sono i banditi che sequestrano una persona ricca e fanno arrivare alla famiglia una immagine del rapito incatenato e smagrito come Cristo prima della crocefissione. Ci sono i governi che inviano immagini del loro popolo che muore di fame e poi ordinano: aiutate, e soprattutto non fate domande. Ma nell’arsenale delle persecuzioni ideate dai mangiapopoli c’è un altro utilizzo ancor più subdolo e criminale: rendere la fame il metodo più efficace, silenzioso e economico per annientare una etnia, un popolo, un gruppo che disturba, si ribella, che deve pagare una pena definitiva e di massa. Stalin era in questo un maestro.
Ecco, ci risiamo. Nel Tigray dopo sette mesi dalla fine ufficiale delle operazioni militari condotte dal governo etiopico e dai sui alleati, le milizie amhara e le forze eritree, per schiacciare la richiesta di autonomia della regione e per punirla di aver gestito per decenni il potere, il 90% della popolazione, circa 5 milioni di persone, secondo le denunce delle Nazioni unite hanno bisogno di un «aiuto alimentare urgente». Si muore di fame. Non è un problema di piogge troppo magre o tardive, di locuste voraci, dei dispetti della natura matrigna e desertificatrice. No. È una carestia voluta, provocata, accudita, moltiplicata. Dal governo di Addis Abeba, da altri etiopi.
Non ci sono solo le denunce, sempre più precise e particolareggiate, di esecuzioni sommarie, stupri anche di religiose, spesso perpetrati di fronte ai componenti della famiglia della vittima. Non ci sono solo i campi profughi dove trovavano miserevole riparo centomila fuggiaschi scarni, stracciati, bubbolanti di fame, dalla schiavitù di stato del dittatore eritreo Afewo brki. Sono stati rasi al suolo per pagare il conto che l’alleato aveva chiesto per collaborare all’annientamento dei tigrini.
C’è di più. La fame è arma di guerra. L’esercito etiopico, molestato da una tenace guerriglia, applica un saccheggio sistematico: l’80% dei raccolti è stato rubato o distrutto, il 90% del bestiame massacrato o condotto via, compresi i buoi che in un Paese dalla agricoltura paleolitica sono indispensabili per i lavori nei campi. E poi c’è un ordine, impedire che i contadini ricevano sementi e concimi e procedano alle semine. Una situazione che ha portato l’alto rappresentante della politica estera dell’Ue a lanciare un appello alla vigilia del g7: «Alle parti coinvolte nel conflitto diciamo: il mondo sta guardando. Sarete ritenuti responsabili».
La terra bruciata si è estesa a ospedali e presidi sanitari saccheggiati o demoliti, le condotte d’acqua rese inservibili, le fabbriche smontate e trasferite in altre parti dell’Etiopia, rastrellate le auto e i mezzi di trasporto, perfino i telai delle finestre e le pentole sono state sequestrate. Il Tigray non deve più rialzarsi. Deve diventare una natura morta della guerra.
Ci sono due milioni di fuggiaschi da questo inferno di distruzione. Non basta. Ma ecco che il piano si perfeziona, resta da annientare l’aiuto alimentare che le agenzie internazionali cercano di far arrivare e che potrebbe salvare qualcuno. Ed ecco che i centri di distribuzione vengono distrutti e agli operatori umanitari i militari impediscono l’accesso nelle zone di raccolta dei profughi.
Ma attenzione, resta un pericolo: le immagini e le parole che possono fare da implacabili delatori dell’ingiustizia. I registi della fame sanno che ci vuol poco perché si pronunci la parola tremenda, inaggirabile: genocidio. Sanno che per sgrondarsi di dosso ogni accusa, bisogna giocare d’astuzia. Basta un fotogramma, una sequenza di pochi secondi su un telefonino: un bambino che ci guarda senza vedere, gli occhi troppo grandi che gli divorano il viso, una immobilità che si cristallizza sopra una terra inaridita che sembra dimenticata dagli dei e annuncia la morte. È già accaduto, in Etiopia, la carestia degli anni ’80 del secolo scorso. Bloccare il flusso delle immagini significa anche inaridire la solidarietà e l’indignazione, il poco di misericordia e di senso di giustizia che, forse, ancora inumidisce l’Occidente. Nessuno manderà aiuti o chiederà punizioni alla cieca, ignorando a chi e perché. Senza la libertà di vedere e di far vedere la generosa avventura del Diritto umanitario, telemondiale e via internet si sfascia ancor prima di esistere. E allora da quando la punizione del Tigray è iniziata nessun testimone è ammesso. Silenzio. Si affama.
Siamo timidi. Abbiamo bisogno di essere aiutati per compatire, anche se il dramma è feroce, ne sentiamo la respirazione grave, laboriosa. Ma noi abbiamo bisogno di favole pulite, terse, amabili. Che c’entra il Tigray, ai limiti della carta geografica con le sue ambe, i pozzi disseccati, il lungo vento, uomini che piangono e uccidono nel fulvo della polvere?
Sgranate la penosa sequenza delle sedute della Nazioni unite per decidere che fare. L’aeropago sbilenco che qualcuno ha osato definire il «parlamento dell’uomo», ingarbugliato nel consueto nebbione di chiacchiere, si è profittevolmente arenato. Dibattito riservato, si ha vergogna di esibire la vigliaccheria. La Russia ha contestato, nel consueto salsone di distinguo, che la fame sia così grave. Negli ultimi tempi ha trovato nell’Etiopia una pedina interessante per il «ritorno in Africa». Bisognerà attendere dunque. Probabilmente il nulla.
E pensare che l’affamatore, il boia ha nome e cognome: il primo ministro Abiy Ahmed per cui la carestia e i massacri nel Tigray non sono che «difficoltà» temporanee e inevitabili danni collaterali. La guerra totale l’ha ordinata lui e se ne vanta, tanto che ha indetto elezioni per farsi incoronare vincitore. L’uomo che un gruppo di sciagurati svedesi ha insignito del premio Nobel della pace e che nessuno sembra voler farsi restituire per evidente, mascalzonesca indegnità, sembra esser preda a una follia narcisistica. Rivolte e pogrom interetnici divampano in tutto il paese e lui annuncia che come Mosè porterà il suo popolo alla prosperità.
Possibile che tra tanti svociatori di prediche e di sanzioni, tra quelli che incensavano fino a ieri la «piccola Cina africana» con il suo dieci per cento di crescita economica annua e stavano appollaiati sotto i progetti faraonici come la diga sul Nilo azzurro per spigolare qualche affaruccio, stiano in silenzio, non facciano ammenda? Dove sono finiti gli umanitaristi, i lagrimaioli delle giuste cause? E l’Italia, che accampa sempre la sua attenzione al Corno d’Africa, è a fianco, silenziosa per intraprendenze affaristiche, dell’ennesimo criminale? Quando è che i danni diventano così gravi che il silenzio diventa il reato di mancata assistenza a chi è in pericolo? Non è la sofferenza degli uomini a decidere?