Corriere della Sera, 11 giugno 2021
Gli effetti pericolosi dell’ansia
Circola una sottile ansia, nell’opinione collettiva italiana, un’ansia che alimenta l’attesa della ripresa dopo la crisi pandemica ed economica degli ultimi mesi; che stimola le speranze che arrivi una svolta decisiva nel nostro sviluppo; che spinge a decifrarne sintomi e dati magari rincorrendo i decimali delle variazioni di Pil; che porta un po’ tutti, governanti ed opinionisti, a incitare i cittadini ad assumere nuove e più accentuate responsabilità.
U n clima che richiama tutte le «epopee» degli ultimi decenni, dalla ricostruzione post bellica al superamento delle gravi crisi dei primi anni Duemila; e che arriva anche ad un rilancio potenziale dell’immaginario collettivo, verso un’idea di Italia diversa e migliore.
Non si sfugge però alla sensazione che tale volontaristico rilancio non riesca a decollare, non riesca cioè ad innervare coerenti comportamenti di massa, quasi che vinca la consapevolezza che i tempi sono cambiati rispetto ai decenni precedenti, e che l’attuale insieme dei sentimenti collettivi e delle attese non sia riconducibile a una nuova fase di mobilitazione collettiva. Chi, come me, è stato analista e cantore di tutte le grandi epopee dal dopoguerra, avverte chiaramente che il richiamarle come esempi da rivivere oggi è un esercizio sempre meno mobilitante.
Gli italiani di oggi sanno di vivere una crisi tutta loro, nei singoli luoghi e nelle singole modalità di lavoro; ed è naturale che nei loro pensieri vincano le componenti del loro necessario impegno soggettivo. Con una specifica realistica sottovalutazione delle esperienze del passato; e con una naturale indifferenza per le chiamate alle armi di tipo collettivo.
Forse l’ultimo episodio di emotiva chiamata alle armi l’abbiamo riscontrato nella crisi del 2008-2009, ma era l’espressione di una difesa di massa, non certo una tensione in avanti, di costruzione di nuovi assetti economici e sociali. E non sorprende quindi che la stessa grande discussione di massa sull’epocale «programma europeo di resilienza» non sia riuscita a traguardare un immaginario collettivo in cui far emergere coerenti flussi di valutazioni e comportamenti del nostro corpo sociale; ci siamo limitati alla curiosità per la quantità di risorse disponibili e per le loro ufficiali destinazioni, spesso troppo tecniche e sofisticate (dalla digitalizzazione alla riconversione ecologica) per destare sociali partecipazioni collettive.
È quindi comprensibile che l’ansia di ripartenza non riesca ad andare oltre l’attesa di un magico avvento dei decimali di Pil, senza che si crei una mobilitazione collettiva su precisi obiettivi di sviluppo del sistema. Del resto, almeno una cosa la storia di questi decenni la insegna: che le epopee prima si fanno e poi si raccontano, visto che in Italia esse sono frutto non di disegni e messaggi proposti dall’alto, ma degli sforzi quotidiani di milioni di singoli cittadini, attenti a se stessi ed ai propri interessi.
Lasciamo quindi che la dinamica oggi in corso, per ora indecifrabile, abbia il suo silenzioso, sommerso svolgimento; poi la potremo raccontare, dandole forma e denominazione. È sempre stato così nelle conclamate epopee del passato, ed è sicuro che anche questa volta qualcuno saprà, in avanzato corso d’opera, far racconto di ciò che sta succedendo.