La Stampa, 10 giugno 2021
I migranti dimenticati nei campi greci
Intanto c’è Lesbo, con i suoi 6579 fantasmi accampati da nove mesi a ridosso del mare sul terreno arido di un ex poligono di tiro. E a Lesbo, nell’inferno di cui ci ricordiamo puntuali a ogni naufragio in cui muore un bambino, c’è una piccola donna di origine afghane che dopo aver urlato tanto ha smesso di parlare: ha visto le fiamme divorare il campo di Moria e la violenza strisciare padrona tra le tende addormentate, ha chiesto aiuto invano ai genitori umiliati dalla sorte, ha pianto come si piange a 8 anni e poi a Natale, di colpo, si è chiusa in una bolla muta inaccessibile a medici e volontari.
«E’ arrivata più di un anno fa ed era una bambina piena di salute, è regredita come succede a tantissimi che sbarcano dopo essere sopravvissuti a traversate disperate e pensano di essere in salvo fin quando realizzano dove sono e ci chiedono se l’Europa sia davvero questa spiaggia battuta dal vento gelido d’inverso e arroventata d’estate» racconta Mara Eliana Tunno, la psicologa italiana che dalla fine del 2020 ascolta gli incubi tutti uguali e tutti diversi di chi bussa alle due cliniche di salute mentale di Medici senza Frontiere, la zattera di un’umanità alla deriva sull’isola greca dalla fama antica e dall’infamia contemporanea di limbo migrante.
Dici Lesbo e pensi agli occhi infossati dentro teste avvolte nelle sciarpe per proteggersi dal freddo o dal caldo. Li abbiamo visti mille volte, a Moria, prima che bruciasse, ai valichi di frontiera presidiati dai cani, in cammino senza scarpe lungo la famigerata rotta balcanica. C’è Lesbo e c’è anche Samos, dove, con i fondi europei, il governo greco sta progettando di spostare i 1705 richiedenti asilo dell’hotspot di Vathi in una nuova struttura recintata col filo spinato al centro dell’isola, lontano dal mare e da qualsiasi villaggio abitato come fosse un campo di confino. E c’è Chios, 973 coppie di occhi infossati senza acqua potabile né pietà.
C’è Lesbo, c’è Samos e c’è Chios nell’ultimo durissimo rapporto di Medici senza Frontiere intitolato "Hotspot in Grecia: la crisi costruita alle frontiere d’Europa" e anticipato oggi da La Stampa. C’è la fotografia senza filtri degli ultimi cinque anni di "contenimento" dei flussi migratori che sul piano politico sono il frutto dell’accordo con cui nel 2016 l’UE ha appaltato le sue frontiere orientali alla Turchia e sul piano umano sono una débâcle infinita, 870 persone annegate nel tentativo di raggiungere la Grecia, 21 morte negli hotspot, 1369 bisognose di cure neuropsichiatriche. Negli ultimi due anni i medici hanno seguito almeno 180 pazienti che si erano tagliati volontariamente o avevano provato a togliersi la vita, due volte su tre si trattava di un bambino. L’ultimo aveva sei anni.
«Questo posto mi ha distrutto dentro, la notte un ombra piomba su di me, sono rotto, è una situazione di morte senza fine» ammette Mohammed, 30 anni, un viaggio della speranza iniziato in Afghanistan e finito a Lesbo. A Samos la trentatreenne Fatima cerca invano la forza della maternità: «Mia figlia ha sei anni, pesava 24 chili quando siamo arrivati e oggi ne pesa 16, non mangia più ed è cambiata tanto, ha paura di tutto, anche solo della pioggia che cade sulla tenda, la cosa più pesante per me è non poter fare nulla».
A Bruxelles si nicchia, il disaccordo sulla gestione dei flussi migratori è totale e ciascuno stato membro negozia a suo modo intese bilaterali che ricalcheranno quelle con la Turchia a est e con la Libia a sud, i regimi di cui "abbiamo bisogno", aiuti in cambio di pattugliamenti senza scrupoli. Si chiede un approccio umano, per carità, guai a dover rispondere domani del neonato trascinato un paio di giorni fa nel mare del Nord fin sulle coste della Norvegia. In queste ore, per dire, è in corso uno scontro dai toni sostenuti tra la Commissione europea che contesta ad Atene l’utilizzo di cannoni sonori per respingere i migranti al confine con la Turchia e il ministro greco delle migrazioni Notis Mitarachi che rivendica il diritto all’autodifesa. Solo che la Grecia, come l’Italia e come la Spagna è stata lasciata sola, ostaggio di quel regolamento di Dublino che impone l’esame delle richieste d’asilo dei migranti al primo paese di sbarco.
Intanto c’è Lesbo, c’è Samos, c’è Chios e c’è stato il Covid-19 che, contrariamente alla vulgata diffusa, non ha picchiato solo sui più benestanti. Il j’accuse di Medici senza Frontiere è senza appello: «Nonostante affermino di voler migliorare la situazione, l’Ue e il governo greco stanno spendendo milioni di euro per standardizzare e intensificare politiche che hanno già causato tanti danni. Non è troppo tardi per la compassione».
I campi sono tutti uguali, le tende, le baracche, la vita che si organizza in mercatini all’aperto, il tempo sospeso in attesa che la richiesta di permesso umanitario venga accolta o più probabilmente respinta. La prassi e la teoria. I campi e il cosiddetto meccanismo di ricollocamento che, sulla carta, avrebbe dovuto redistribuire 160 mila richiedenti asilo dall’Italia e dalla Grecia in altri paesi europei e invece, a conti fatti, nel 2017, quando questo schema è stato abbandonato, meno del 20% delle redistribuzioni erano andate a buon fine. Da allora il meccanismo è volontario e il risultato degli ultimi due anni parla di 2296 persone, compresi minori non accompagnati e bambini malati, partiti dalla Grecia e diretti in sette diversi paesi europei.
«Viviamo in condizioni da animali più che da esseri umani, siamo pronti ad adattarci a qualsiasi circostanza ma qui non c’è scelta, le "pareti" della mia casa sono fogli di plastica e non mi proteggono da nulla» racconta Mohamed, 31 anni, fuggito dalla natia Idlib e dalla guerra siriana nell’ottobre del 2019 per approdare a Samos, libero ma prigioniero. La moglie e i due figli sono in Libia, lui si era diretto in Grecia pensando che l’Europa fosse più vicina. Mohammed come il camerunense Bille Fergusson, scappato con la moglie dagli scontri separatisti nel suo paese e celebre a Vathi per aver ricostruito tre volte la baracca distrutta dagli incendi, sta lì, sulla frontiera del nulla.
«L’Ue deve porre fine alle politiche di contenimento e garantire che le persone che arrivano in Europa abbiano accesso all’assistenza urgente» ripete, fino a perdere la voce Reem Mussa, esperta di migrazioni di Msf. Intanto c’è Lesbo, Samos, Chios, solo che le parole non ci sono più.