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 2021  giugno 08 Martedì calendario

Intervista a Niccolò Fabi


Niccolò Fabi era in tour quando la pandemia ha bloccato la musica. Ha chiuso la custodia della chitarra, messo via il microfono e vissuto il silenzio del lockdown, aspettando il momento giusto per tornare in scena, riprendere il discorso lì dove l’aveva dovuto interrompere. Dopo le coraggiose e sparute date della scorsa estate, con i suoi musicisti è pronto a riprendere la strada, come farà da giugno a settembre (partendo il 24 e 25 dalla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma), da un capo all’altro dell’Italia, con le canzoni del suo album più recente, Tradizione e tradimento e quelle che negli anni ha portato con sé. Torna dal vivo per rimettere in circolo sangue e sentimenti, ricordi e visioni come ha sempre fatto, raccontando di sé e di noi, puntando dritto al cuore. «Sono stati mesi particolari, ero nel sommergibile e con il periscopio guardavo cosa accadeva fuori – ci dice – non è stato solo non poter lavorare: era una condizione collettiva inedita che ha sconvolto le nostre vite. Le conseguenze le vedremo da ora in poi, economiche ma anche ecologiche, personali, psicologiche».
Lei come ha reagito?
«Mi sono messo in letargo, ho osservato tutto con una certa distanza. Quando è iniziata mi stavo lanciando in avanti, ero uscito con un disco dopo tre anni e mi sono dovuto richiudere. Non è stato stimolante né fruttuoso, ma immagino che con il tempo le emozioni vissute si potrebbero trasformare in una narrazione».
Cosa vuol dire ripartenza?
«Tornare a vivere. È una ripartenza cellulare. La vita è legata al movimento, in questi mesi è stato come se il sangue avesse rallentato la circolazione. Niente interazione con gli altri, confronto, contatto. Non è stato un problema di “mancanza del palco”, non è quello il luogo in cui mi sento me stesso. Lo frequento perché lì posso rappresentare una storia che ho voglia di condividere, e francamente non avevo nemmeno voglia di farlo. Quello che mi è mancato tanto è la vita, la libertà, sentire gli altri vicini. Ora aspetto volentieri i viaggi in furgone, girare l’Italia e l’Europa con il solo obiettivo di suonare».
Da dove riprenderà il discorso?
«Non posso riprendere da dove avevamo lasciato, il mondo è stato sconvolto da un’esperienza devastante, il compito dell’artista non è fare finta di nulla. Useremo la musica per raccontare la storia emotiva. La scaletta dei concerti non può che risentire di quello che è successo. Non presenterò solo Tradizione e tradimento, cercherò di utilizzare anche altre canzoni per raccontare qualcosa che rispecchi lo stato d’animo mio e degli altri.
Alcune sembreranno invecchiate, altre avranno sfumature che sentiremo ancora vicine. Ciò che conta è che torneremo in giro tutti, musicisti, tecnici, il patto che andava onorato era quello con il gruppo con cui abbiamo fatto il tour teatrale».
Sarà un’estate con tanti artisti.
«Tutti vogliono tornare a fare il proprio mestiere. I grandi staranno fermi un altro anno. Nella fascia mille persone, la capienza consentita, c’è un gruppo ampio di artisti che suoneranno questa estate e il pubblico dovrà scegliere. Chi cerca musica per dimenticare quello che è successo, per alleggerire la pesantezza, non sceglierà me: la mia atmosfera è intensa, non scanzonata. Ma proprio per questo non abbiamo bisogno di una certa fisicità da assembramento, ai miei concerti si può stare seduti o distanziati senza problemi».
E poi la sua musica è animata da un senso di bellissima e malinconica speranza…
«Parole che credo siano in sintonia con le persone che mi seguono, che cercano ascolto, comprensione, inclusione. Se alcuni vorranno farsi accompagnare da quella malinconica speranza, noi saremo lì ad accoglierli a braccia aperte».
Ripartenza significa anche scrivere nuove canzoni?
«Forse sto evitando di scrivere perché in questo momento la “malinconica speranza” è in una fase nebbiosa. Le persone non hanno avuto relazioni se non virtuali, vedo aggressività, giudizi sommari, tutto acuito dai social e dal web, l’unico elemento di contatto tra noi e gli altri. Siamo costretti a scrivere messaggi e in quel caso o sei Petrarca o è difficile farsi capire. Come artista mi sento in difficoltà. Non mi interessa esprimere un parere, partecipare alla polemica del momento: penso che un’artista debba esprimersi attraverso la sua arte, portare chi ascolta verso una comprensione migliore, non verso slogan che sono la fine del pensiero».
Tutto questo la spinge verso la sua natura di solitario, il “loner” cantato da Neil Young?
«È così. L’ipersensibilità, unica caratteristica che sono sicuro di avere, è alla base di alcune cose belle che ho fatto. Al di là del talento musicale, mi ha portato a cogliere gli aspetti speciali di alcune vicende, anche se mi fa stare male. Ma non sono davvero solitario, mi sono circondato da una famiglia, perno del mio nucleo amoroso in cui sono sereno, e mi fa da schermo. Le persone possono farmi molto male, percepisco gli altri in maniera forte ma non ho l’aggressività necessaria per contrastarli. Quando prendo un pugno me lo tengo e faccio un passo indietro. Artisticamente questo ha fatto sì che raffinassi un linguaggio che non vive di salotti virtuali, di featuring, di “bella”, “amico”. Magari è dovuto all’età, ho 53 anni, o è un fatto caratteriale, chissà. Ma per ora il disagio è forte, perché è difficile capire quale sia il mio posto nella società».