La Stampa, 8 giugno 2021
Intervista a Ian Rankin
Per spiegare la torbida stagione nella quale gli abitanti del pianeta Terra si sono infilati, Ian Rankin evoca «l’avanzata dell’estrema destra, il dramma di Brexit, il bipolarismo politico che divide le genti, il clima estremo, i continenti in fiamme» e, naturalmente, il Covid-19. Gli serve per raccontare la genesi di Una canzone per tempi bui, ultima avventura (per ora) dell’ex ispettore John Rebus, un thriller intrigante incastonato su due trame e, al solito, su molteplici e profonde emozioni figlie del momento. «L’ho pensato prima del lockdown, il titolo c’era già», ammette lo scrittore scozzese, maestro del Tartan Noir: «Ovunque guardassi, nei giornali e in tv, vedevo il mondo piegarsi verso destinazioni cupe». È allora che ha cominciato a scrivere di «tempi bui». Poi è arrivato il virus.Ian Rankin – originario del Fife, classe 1960 – si gode dal balcone i Meadows, il parco della vecchia Edimburgo. «Posso vedere l’appartamento di Big Ger», il cattivo ancora protagonista della serie, ma «anche Rebus che porta il cane a spasso». Lassù il lockdown è gli parso meno crudele, «poter lasciare casa per un’ora significava arrivare ovunque, camminare in strade completamente deserte sino al castello e Princess Street. Non c’era anima, un’esperienza singolare!». Sotto casa resisteva un chiosco per il caffè, unico luogo di aggregazione della zona: «Tutti volevano andare da qualche parte e, alla fine, il gestore ha portato i giradischi e ha improvvisato dei dj-set».Nel frattempo, un Rebus invecchiato male ha preso a indagare sulla scomparsa del compagno della figlia nel Nord della Scozia, imbattendosi nel mistero legato ai campi di internamento per stranieri della Seconda guerra mondiale. In città, gli immancabili Siobhan Clarke e Malcom Fox scandagliano le brutte vicende capitate ad alcuni studenti stranieri giunti un po’ troppo vicino a Big Ger. Incidenti solo moderatamente inquietanti finché non compare un cadavere ad agitare i destini di tutti. Tutto sommato, «era come ci fossimo instradati per una destinazione oscura». Tempi così bui da richiedere una canzone. E un romanzo di Rankin.Se lo aspettava il Covid?«No, non sono uno scrittore di fantascienza, non so intuire il futuro. La pandemia mi ha colto di sorpresa. Nel libro c’era però l’idea degli alleati che non sono più alleati, dei politici che creano barriere fra di noi, che cercano di far diventare tutto un “noi e loro”, “sì o no”, “amico o nemico”. Al momento c’è poco spazio per dibattiti con delle sfumature, per confronti più articolati. Tutto è ridotto a messaggi molto semplici, il che fa paura. Non sono il solo a pensare agli anni Venti e Trenta: c’è ogni premessa per il risveglio di un nuovo fascismo».Dopo tre lockdown, il quadro più luminoso?«Credo che un sacco di persone saranno più nervose quando si troveranno con altri intorno a loro. Il nostro stile di vita ci consente di isolarci facilmente, puoi avere il cibo a casa, l’informazione e gli spettacoli. Ci sarà più gente che guarderà agli estranei come a qualcuno che potenzialmente può ucciderli e contagiarli. Dobbiamo combattere tutto questo, perché la società funziona quando è una comunità di persone».Parliamo di Rebus. Dovrebbe avere fra 74 e 77 anni.«Questo è nel mondo reale. Dopo Partitura finale non ho scritto di Rebus per 5 anni e allora ho deciso che non contano. Ho rallentato l’orologio. Quindi direi che è nei sessanta avanzati».Ma il fisico non gli tiene.«Ogni volta che comincio un libro di Rebus penso che potrebbe essere l’ultimo, semplicemente perché non so se sarò in grado di trovare una nuova avventura per lui. Ha un’età, non è più ispettore di polizia, ha problemi di salute, eppure continuano a spuntare storie adatte per lui».Stavolta gli ha confezionato un doppio plot dalle gambe lunghe.«Sono due storie basate su episodi realmente accaduti».Quali?«Il campo di internamento di cui si parla è una realtà dell’ultima guerra. Decine di migliaia di persone, fra cui molti italiani, furono recluse perché considerati potenziali spie o traditori. È stato terribile. A un certo punto la nostra gente cominciò a protestare, per questo. I campi esistono ancora, sono attrazioni turistiche, ce n’è anche uno nella Scozia settentrionale».Poi ci sono gli studenti minacciati...«La Brexit ha provocato un aumento degli attacchi razzisti. Diversi stranieri sono stati assaltati verbalmente o fisicamente. È la società che vuol dirci qualche cosa sul suo orientamento? Che il razzismo sta diventando una presenza quotidiana nella nostra vita? Alla fine, queste due trame mi permettevano di affrontare tematiche cruciali, come la Brexit e il razzismo dilagante».Rebus vive lentamente.«Ai fan piace l’idea che sia invecchiato, si sia evoluto e sia cambiato nel corso della serie. Non può più fare a botte perché è un signore anziano e le prende, se qualcuno l’attacca di ferisce. Il cervello è rimasto la sua arma migliore, con l’esperienza che ha accumulato nella carriera di poliziotto. Nel Nord della Scozia, però, non ha alcun aiuto e i poliziotti locali lo considerano una seccatura».È interessante il rapporto con la figlia, Samantha.«Nel dna da investigatore di Rebus c’è anche la possibilità di dubitare della figlia, se il suo compagno è scomparso. Per questo comincia a sospettare che lei possa aver avuto un ruolo nel caso. E quando lei lo capisce, si genera tensione nella famiglia, c’è un dramma fra un padre e una figlia che non sono mai stati molto vicini e che ora non si fidano l’uno dell’altra».Brutta storia, questa.«Mi piace il fatto che l’avere a che fare con Rebus è sempre una sfida. Non c’è margine per pigrizia o compiacenza, quando c’è lui. Ora è un personaggio diverso, è cambiato rispetto a qualche libro fa».Parla di Rebus come se fosse indipendente da lei.«È così per tutti gli eroi letterari. Vivono oltre i libri che rivelano solo parte della loro vita. In realtà, oltre i romanzi, c’è una intera esistenza di cui Rebus riesce a godere. I lettori, e con loro io, lo sentiamo reale. È stato un piacere e un onore spendere tanto tempo con lui, anche se non credo che gli piacerei, se m’incontrasse».Perché?«Mi troverebbe un po’ troppo liberale, un tipo educato all’università, uno che non ha mai fatto un lavoro duro nella vita. Potremmo parlare un poco di musica, ma finirebbe lì. Si, Rebus ha una vita indipendente. Quando mi siedo a scrivere un romanzo, mi ritrovo a sperare che sia disposto a entrare nella mia coscienza e condividere la sua storia con me».E adesso? Vuole un nuovo sabbatico da Rebus?«Ho fatto un accordo con il mio editore per un libro ogni due anni. Non è andata così, anche a causa del Covid. Nel 2020 ho scritto due romanzi, quest’anno ho finito un dramma televisivo e un testo teatrale. Ora sto per cominciare un nuovo libro, non un Rebus, ma comunque un thriller. La realtà è che mia moglie non è contenta perché non ho preso abbastanza tempo per noi. Così, uno di questi anni non scriverò e viaggeremo insieme».Canzoni per tempi duri?«Ne sceglierei tre per fuggire dai tempi bui. Solid Air di John Martyn, è un pezzo molto fresco che sento spesso. Aggiungerei Leonard Cohen, Allelujah, ha dello spirituale ma parla alla natura dell’uomo. E Joni Mitchell, magari The Last Time I Saw Richard».Come sta la letteratura gialla?«Ci sono due diverse direzioni su cui il poliziesco si è incamminato. Una parte del pubblico chiede storie dark che riflettano i tempi che stiamo vivendo, ciniche, anche satiriche. Altri vogliono fuggire dalla realtà, aspirano a un ritorno all’età dell’oro del poliziesco, un po’ nello stile di Agatha Christie. Non so quale sia la risposta, ma il libro giallo più acquistato nel Regno Unito è di Richard Osman, Il club dei delitti del giovedì. Ha venduto centinaia di migliaia di copie con la sua trama più leggera. Racconta di alcuni anziani in una Rsa che indagano su un delitto. Forse è quello che la gente chiede, più che i duri violenti di James Ellroy».Esiste un effetto «George Floyd» sui giallisti?«Qualcosa è cambiato. Gli scrittori che scrivono di sbirri dove riflettere a fondo dopo quello che è successo, su qual è la giusta immagine della polizia. Al pubblico si sta dicendo che i poliziotti non sono più gli eroi della storia, che possono fare cose terribili e farla franca. Si deve ragionare su come parlare di piedipiatti nell’anno 2021. Se guardi Montalbano in televisione hai una immagine gradevole della polizia, ma non credo che sia ciò che la polizia è davvero».Il trucco di Montalbano è che parla poco della mafia.«Sappiamo che chi scrive polizieschi in Italia deve fare particolare attenzione per non finire nella lista nera della Mafia. È difficile. Bisogna essere responsabili. Credo che i lettori, adesso, aspirino a evadere dalla realtà. Vogliono che gli si ricordi che esiste un mondo possibile e diverso in cui non devi vivere con la paura del Covid, di una morte violenta e improvvisa. Immagino che usciranno molti gialli delicati nel futuro che arriva. È scritto nelle cose». —