Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2021
La carenza di microchip fa vacillare anche la Cina
Rincari delle materie prime, caos della logistica e carenze di semiconduttori cominciano a far vacillare persino un gigante come la Cina. Ma proprio la reazione del gigante – che sta diventando più morigerato nel consumo di materiali – potrebbe attenuare i problemi che oggi assillano le imprese di tutto il mondo e che si sono aggravati al punto da minacciare la ripresa post pandemia.
Gli ultimi dati sulla bilancia commerciale cinese, riferiti al mese di maggio, non dipingono una situazione drammatica per la locomotiva asiatica (si veda il pezzo qui sotto). Ma dopo la frenata già evidenziata dal comparto manifatturiero sono un’ulteriore conferma del fatto che la domanda cinese di materie prime, componenti e semilavorati si sta raffreddando: una tendenza che se confermata potrebbe alleviare i costi di produzione a livello globale, fermando la vertiginosa spirale di aumenti sul mercato.
Le importazioni di Pechino il mese scorso sono sì cresciute del 51,5% su base annua, l’incremento più forte da un decennio. Ma il rialzo (espresso in termini di valore in dollari) dipende soprattutto dai prezzi record delle commodities, in molti casi più che raddoppiati nel giro di dodici mesi. I volumi acquistati dalla Cina in realtà hanno cominciato a calare: una svolta significativa, che è particolarmente evidente nel caso del petrolio. Pechino – che quando le quotazioni del barile erano depresse acquistava a man bassa per fare scorte, trainando la domanda globale – a maggio ha importato appena 9,65 milioni di barili al giorno di greggio, il minimo da 5 mesi e il 14,6% in meno rispetto a un anno prima: un calo avvenuto mentre il Brent si spingeva verso 70 dollari al barile e che, come osserva ING, «suggerisce che i raffinatori cinesi siano riluttanti a importare a questi prezzi elevati e preferiscano invece attingere alle scorte». Nella Repubblica popolare le autorità hanno anche alzato la guardia sulle importazioni, aprendo indagini su sospette irregolarità da parte di alcune compagnie.
Ma la stessa dinamica si osserva in relazione all’import di rame: a maggio – quando il metallo volava ai massimi storici, superando 10mila dollari per tonnellata a Londra – Pechino ha importato l’8% in meno che ad aprile. Identico copione per minerale di ferro e carbone: la Cina è diventata più parca negli acquisti.
Il fenomeno peraltro non riguarda soltanto il gigante asiatico, ma in scala minore anche altri Paesi. «I prezzi elevati delle commodities iniziano a incontrare resistenze da parte dei consumatori», osservava Ihs Markit in un recente rapporto, concludendo che questa tendenza «potrebbe essere il fattore più importante per interrompere la salita dei prezzi delle materie prime, che prosegue da 13 mesi».
Aspetti significativi emergono anche dall’analisi delle esportazioni cinesi, che hanno rallentato il ritmo di crescita: una frenata in parte legata alla mancanza di microchip (di qui, fanno notare alcuni analisti, il calo del 4% delle vendite nel segmento dei componenti auto) e in parte dovuta alle difficoltà nei trasporti marittimi, che lungi dal risolversi si sono anzi riacutizzate di recente a causa del focolaio di Covid nel porto di Yantian, uno dei maggiori terminal container nel mondo, nella provincia del Guangdong. Proprio questa crisi ha rilanciato a livelli record – moltiplicati per sette rispetto a un anno fa – i noli per le spedizioni di merci dalla Cina all’Europa e allungato ulteriormente i tempi di consegna.
Anche sul fronte dei semiconduttori la situazione rimane difficile. Ieri la Bosch ha inaugurato una nuova fabbrica in Germania, che aiuterà ad attenuare la dipendenza europea dall’Asia, ma sul piano globale non ci sono grandi schiarite. La Flex di Singapore, tra i maggiori produttori di apparecchiature hi-tech per conto terzi, prevede carenze di microchip per almeno un altro anno. Intanto a Taiwan, sempre a causa del Covid, ha rallentato l’attività la King Yuan Electronics, specializzata nel testare microprocessori.