ItaliaOggi, 8 giugno 2021
La storia d’Italia raccontata da Perna
Raccontare l’Italia per aneddoti, come facevano Longanesi e Montanelli, oppure illustrarla con finto sdegno attraverso i colpi di scena che ne tessono la trama, secondo il costume dei commentatori politici specializzati in effetti drammatici, chi facendole gli occhiacci e chi trattandola con condiscendenza, è cosa che da tempo non appassiona né convince più nessuno. Anche dare la storia nazionale per inspiegabile, come prima o poi sono un po’ tutti tentati, facendone un grande arcanum tipo l’origine delle piramidi nei fumetti di Martin Mystère, è ormai diventato l’ennesimo, imbarazzante stereotipo giornalistico. Restano, quando evitano le baggianate moralistiche, le vecchie commedie all’italiana e i moderni cinepanettoni: ritratti molto somiglianti di un’Italia ieri cinica e brutale, oggi inenarrabile.
Sbaglierò, ma personalmente, dopo avere letto Il ring. Cinquant’anni di risse tra i poteri, sono dell’idea che il racconto più razionale, più solido e persuasivo che sia stato fatto finora della storia patria sia quello di Giancarlo Perna (un principe del giornalismo che in qualunque paese civile sarebbe il vanto della professione mentre qui sono i gazzettieri da talk show a tirarsela da star). C’è una ragione, spiega Perna, se l’Italia repubblicana (l’Italia del referendum e dell’assemblea costituente, delle bandiere rosse e delle madonne pellegrine, delle procure d’assalto e del terrorismo, del sovranismo e dell’«arrestate me») dal 1946 in avanti non ha mai smesso di cadere a pezzi.
Nata sotto una cattiva stella, progettata da pessimi ingegneri e architetti, l’Italia repubblicana è stata costruita con materiali politici di scarto: clericalismo, stalinismo, post fascismo, azionismo, qualunquismo. Di liberalismo, dopo il repulisti antiliberale promosso dai fascisti nel primo dopoguerra, non c’è più stata traccia, a parte la breve parentesi di Benedetto Croce ministro del governo Badoglio e di Luigi Einaudi al Quirinale.
Ridotto il liberalismo a fantasma, da noi passa per liberale non soltanto Silvio Berlusconi, l’uomo che sorride beato quando i suoi seguaci, tenendosi per mano, intonano «meno male che Silvio c’è» (il loro «t’adoriam, ostia divina»). Si dichiarano liberali, senza che nessuno scoppi a ridere, anche gli ex, post, vetero e catto comunisti, per non parlare dei post fascisti e dei fascisti rinati, o dei cattolici; sono liberali persino i mangianegher sovranisti e le SA pentastellari.
Tutto comincia nel 1923, quando Giovanni Gentile passa al nemico e scrive sulla sua rivista, La nuova politica liberale, che cambierà più volte titolo fino a diventare nel 1933 Civiltà fascista, d’essere «fermamente convinto della necessità suprema di uno Stato forte, come dovere e come diritto del cittadino, e di una disciplina ferrea, che sia scuola rigida di volontà e di caratteri politici. (…) Questo il succo del mio liberalismo». Da allora le istituzioni libere sono diventate in Italia una barzelletta. Liberale a parole, illiberale nella sostanza, l’Italia sta insieme con lo spago (se lo spago si spezza, via con un altro spago, e se manca lo spago, allora un elastico, una puntina da disegno, un po’ di nastro adesivo).
Organizzata intorno a poteri zoppicanti, concepiti per essere in perenne conflitto tra loro, il paese è un ring istituzionale, dove negli ultimi trent’anni, da Tangentopoli in poi, sono stati i poteri nominati e autoproclamati a picchiare più forte dei poteri eletti. A vincere ogni volta per KO le due Camere elette dal popolo non è stata soltanto la magistratura, ma anche la piazza, anche l’informazione e il web. Ci sono stati momenti, nella storia recente e meno recente del paese, nei quali manganelli, lupare e P38 hanno contato più dei parlamenti (e persino più dei tribunali).
Barzelletta istituzionale, l’Italia non è una nazione ma un carnevale: nessuna identità precisa ma molte identità imprecise. Alcune di queste identità sono sinistre e minacciose, come il giustizialismo che dal Blitzkrieg di Mani Pulite in poi ha sabotato (fino a svuotarlo) il potere legislativo; altre sono comiche come la sintassi 5stelle, e altre ancora arcane e inspiegabili come il carisma da quattro soldi dei nostri leader, da Tonino Di Pietro a Berlusconi, da Beppe Grillo a Matteo Salvini.
È un paese, l’Italia degli ultimi settant’anni, che ha ereditato dal fascismo un irriducibile amore per i tiranni e un costitutivo disprezzo per le forme della democrazia (dunque per la libertà, che non vive di prepotenze, calunnie e imboscate, come da noi, ma di regole, come nelle nazioni perbene). Non abbiamo realmente impiccato Mussolini, qualunque cosa se ne racconti, ma lo abbiamo interiorizzato. Sotto incantesimo autoritario, l’elettorato italiano s’opprime da sé tifando per chi lo priva del suo diritto fondamentale: la rappresentanza. Solo un elettore masochista può votare partiti che sputano (anzi, «scatarrano», come s’esprime con tipica eleganza una nostra ex ministra dell’istruzione) sul parlamento eletto e applaudire chi trasforma gl’imputati sotto processo (o anche solo i sospetti sotto inchiesta) in cavie da laboratorio per i Dottor Mengele della magistratura. Eppure, è quel che fanno gl’italiani da decenni e decenni.
Prima l’Uomo della Provvidenza, quindi il Padre dei popoli, poi Ho Chi Minh e Che Guevara, il Pool Mani Pulite, l’arcobalenismo pacifondaio, l’Accoglienza e l’Antiaccoglienza, il Vaffa Day: è qualche cosa nell’aria, una maledizione della mummia che spinge l’elettore italiano al suicidio e che evita ai malintenzionati politici di conquistare il potere ricorrendo (come si usa, sudandosela) all’olio di ricino e alle maniere spicce. È di questa catastrofe culturale e politica che parla il libro di Giancarlo Perna.
Pochi gli aneddoti, e quando ci sono ficcanti; niente smancerie montanelliane su questo o quel dittatore «buonuomo»; neanche l’ombra d’un effetto drammatico da falso giornalismo d’inchiesta o da grande firma sedicente indignata («onestà, onestà»); mai nemmanco sfiorata la parola «casta», e meno che mai la parola «resilienza»: Il Ring mette nero su bianco l’intero disastro italiano senza perdersi dietro le sciocchezze, ma mirando al punto.
Nero su bianco. Ma soprattutto in punta di penna. Perna è infatti uno scrittore eccezionale. Così descrive la decisione, presa nel 1981 dal ministro del tesoro Beniamino Andreatta e da Carlo Azeglio Ciampi, ai tempi governatore della Banca d’Italia, di smettere di stampar moneta, come s’usava allora, per venire incontro ai problemi di cassa dello Stato. Senza consultare il parlamento, né informarlo a cose fatte, questa decisione fatale, destinata a far crescere il debito pubblico a dimensioni cosmiche, fu «presa in solitaria da due uomini. Eminenti quanto si vuole ma con la stessa autorità a farlo d’una coppia di ammiragli che dichiari guerra a Marte».
Quanto poi all’«inaudita trasformazione del Pci», che dopo il tracollo dell’Urss e delle democrazie popolari diventa in un lampo il «suo opposto ideologico, come un frate che diventa gigolò». È tempo di metamorfosi: «Attorno al Pds, s’era riformato il piccolo mondo antico della Prima Repubblica in versione annacquata e sotto nomi di comodo: Margherita, Ulivo, Quercia e flora varia. Cattolici, marxisti, laici, radicali, tutti sfocati per tollerarsi reciprocamente, ma uniti nella gestione degl’interessi e del potere. Per concludere, il guscio vuoto del Pds si era riempito di questa macedonia, lontano mille miglia dal socialismo delle origini e pronto, per mancanza di anima, a ogni uso».