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 2021  giugno 05 Sabato calendario

Jumpa Lahiri sul suo "Il quaderno di Nerina" (Guanda)

Nella prima metà del 2012, in procinto di trasferirmi da New York a Roma, facevo ancora fatica a leggere in italiano. Da qualche mese, avendo rinunciato all’inglese, ero alle prese con i racconti di Moravia, di Pavese, di Natalia Ginzburg. Li apprezzavo ma li capivo attraverso un velo, non fino in fondo. Quell’estate, mentre finivo la scrittura di The Lowland (intitolato in italiano, La moglie), ho preso in mano un’antologia di poesie italiane curata da Geoffrey Brock con il testo a fronte in inglese. L’impatto dei versi nel volume di Brock è stato radicalmente diverso. Assorbivo le parole di Ungaretti, di Leopardi, di Pasolini di Caproni con più immediatezza, con più chiarezza e, malgrado la complessità a la sottigliezza delle opere, con meno ambiguità. È stata una lettura più intima e accogliente, che scorreva con meno ostacoli, in un linguaggio puro e spoglio. Così, leggendo Saluto a Roma di Bassani, ho trovato l’epigrafe di The Lowland e ho deciso di citarla nel testo sia in italiano che in inglese. Non capivo il significato profetico di aver scelto quella poesia di Bassani. Non sapevo che The Lowland sarebbe stato l’ultimo mio libro scritto in inglese per almeno dieci anni. Non sapevo nulla della trasformazione che mi aspettava quando, il 12 agosto del 2012, una settimana dopo che sono arrivata a Roma, sono passata all’improvviso nelle pagine del mio diario dall’inglese all’italiano.

Fra i pochi libri portati da New York a Roma c’era l’antologia di Brock, e continuavo a leggere le poesie lì dentro nei primi mesi scombussolanti nella Capitale. L’antologia era diventata la mia ancora, un talismano che convalidava non solo la mia nuova inclinazione verso la lingua letteraria italiana ma anche il fondamento innegabile in inglese. Quando mi sono sistemata per la prima volta a una scrivania tutta mia in un appartamento a Trastevere, ho copiato a mano una riga di Montale - «Portami un girasole impazzito di luce» su un pezzettino di carta e l’ho attaccata alla parete. La guardavo tutto il tempo; quelle sei parole si sono radicate all’istante dentro di me e sono diventate un incantesimo. La poesia parla di un fiore trapiantato grazie al quale «tendono alla chiarità le cose oscure». L’esortazione di Montale, attaccata tutt’ora sopra la mia scrivania in un altro appartamento, è ormai quasi completamente sbiadita dal sole romano che illumina il mio studio.

Pensandomi essenzialmente una prosatrice, considerata una scrittrice di racconti e romanzi, durante i primi tre anni a Roma mi sono tuffata nella narrativa italiana. Dopo un anno leggevo dei romanzi anche lunghi senza l’aiuto quasi costante del dizionario. Eppure leggevo poesie, senza parlarne troppo, per mantenere quell’impatto viscerale, quel rapporto puro e diretto con la lingua. Solo la poesia mi lasciava, come il girasole chiaroscuro di Montale, impazzita di luce.

In altre parole, il primo libro che ho osato scrivere in italiano, fu in prosa. Quando ho iniziato a scriverlo nel 2013 ho cambiato lingua ma non ho toccato molto il linguaggio. Nel 2015, subito dopo la pubblicazione di quel libro, ho iniziato ad abbozzare le prime pagine di Dove mi trovo. Avevo deciso di tornare negli Stati Uniti, perciò sapevo già di dover allontanarmi, alla fine di agosto, dall’Italia, e dalla lingua italiana. Pur essendo in prosa, Dove mi trovo è un libro di transizione, un libro che oscilla fra un genere e un altro, un testo che dedica più attenzione alle parole e ai ritmi delle frasi. Mi interessavano il respiro della prosa piuttosto che la trama, i personaggi, l’architettura. C’è alla fine una trama, anche dei personaggi, perfino una struttura, ma tutto ciò ubbidisce a qualcos’altro, a un’esortazione sibillina. Sapevo, mentre scrivevo quel romanzo, di essere molto più al largo rispetto a prima - di essere piacevolmente e volutamente alla deriva.

Nel 2016, in parallelo con la scrittura scaglionata di Dove mi trovo, ho cominciato a curare anch’io un’antologia, tendenzialmente di prosa, dedicata alla forma del racconto novecentesco in Italia. Invece fra i quaranta autori che presento nel volume ho scoperto tantissimi scrittori ibridi, a cavallo non solo fra lingue diverse ma che oscillavano come Bassani fra prosa e poesia, che scrivevano e/o traducevano la poesia, fra cui Pavese, Levi, Palazzeschi, Landolfi, Saba, Campo, Bontempelli, Alvaro, D’Arzo e Delfini.

Nel 2018 quando è uscito Dove mi trovo mi sono ritrovata in Italia per un anno intero. Andavo in giro per presentare il libro. Un giorno a settembre in treno ho tirato fuori il taccuino che uso come diario. Volevo descrivere qualche cosa. Ma quando sono arrivata alla fine di una frase ne ho cominciata subito un’altra senza arrivare al punto o al dunque. Non trovavo più il solito andamento, quella certezza mi aveva abbandonata. Non sapevo cosa fosse questo nuovo tipo di scrittura, sapevo solo che sorgeva da una nuova parte di me, in fondo a un lungo corridoio attorno al quale pensavo già di conoscere ogni porta, ogni stanza. Nella nuova stanza in cui sentivo solo i versi la solita distanza fra l’anima e la parola, il solito confine, quasi non c’era più.

Per circa nove mesi non mi è riuscito di scrivere in nessun altro modo. Non mi veniva nessun racconto, nessuno spunto per nessun romanzo. Ero acutamente consapevole del fatto di non aver mai osato scrivere una poesia in lingua inglese, e di aver osato, di nuovo, in italiano.

Potrei concludere che la scoperta della lingua italiana mi ha condotta alla poesia. Eppure, se ci rifletto, mi stavo già preparando, inconsciamente, il terreno. Ho scritto le mie tesi di laurea su Chaucer e su Spenser. Ho imparato il latino per poter leggere direttamente Virgilio, Ovidio, Catullo. A vent’anni non ero ancora fidanzata ma ero innamorata follemente di Shakespeare, di Wyatt e di Donne. Mentre facevo il dottorato ho studiato con il poeta portoghese Alberto de Lacerda, e lui mi ha fatto conoscere, in inglese, la poesia di Fernando Pessoa e i suoi eteronomi. Fare amicizia con Alberto mi ha cambiato la vita. Vedevo come abitava un dormiveglia continuo, come cercava la distanza dal chiasso del mondo in modo da accendere quotidianamente il silenzio propizio alla poesia. Osservavo la sua capacità di intuire e di intravedere il mondo sopra la realtà, cioè, di sperimentare una specie di surrealismo continuo. Alberto parlava sempre di poesie o di bellezza o di musica; se ne fregava di tutto il resto. Ho riconosciuto lo stesso baricentro, un attaccamento similmente feroce alla vita quando ho fatto amicizia con Patrizia Cavalli a Roma.

Cinque anni fa quando dicevo «sto scrivendo in italiano» mi sentivo in imbarazzo, un po’ ridicola, mi pareva un’impostura. Nel dire, ora, «sto scrivendo poesie» lo sconforto aumenta solamente.

Solo che non sto scrivendo, al momento, poesie, non perché non mi piacerebbe farlo, ma perché non mi raggiungono più, perché ho imparato, da Parise, che la poesia non è una condizione stabile o affidabile. Ti visita come una febbre benefica, oppure emerge come una specie di orticaria sulla pelle. Dà leggermente fastidio con ogni manifestazione, terrorizza e stupisce al contempo.

Solo la poesia mi fa capire il vero senso della mia vita di scrittrice. Mi ha fatto capire anche un lato latente ma cruciale di mia madre. Di recente, nell’aprile del 2021, l’ho persa. Era poetessa. Non scriveva regolarmente, non ha mai avuto uno studio, una scrivania come me. Di tanto in tanto mi leggeva le sue poesie. Le apprezzavo senza capirle bene; il registro del suo bengalese era troppo alto. Negli ultimi giorni della sua vita, quando stava per scivolare via, ho messo da parte, in una sua cartella logora, un mucchio dei suoi versi scritti a mano. Nel caos della morte non volevo che andassero persi. Sarebbero da tradurre un giorno con calma, in qualche mia lingua. Per ora, per ritrovarla, sfoglio le sue poesie senza leggerle. Vedo nelle righe l’evidenza precisa della sua mano, del suo sguardo unico verso le cose, della sua libertà interiore. Vedo una parte di lei che, negli ultimi anni della sua vita, attraverso l’oceano, senza dirmi niente, senza neanche saperlo, ha tramandato a me. «Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; / portami il girasole impazzito di luce».