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 2021  giugno 06 Domenica calendario

Tadzio (Björn Andrésen) 50 anni dopo

«Con meraviglia Aschenbach vide che il ragazzo era di una bellezza perfetta. Il suo viso, pallido e graziosamente chiuso, attorniato da ricci color del miele, col naso diritto, la bocca amabile, un’espressione di gentile e divina serietà, ricordava le sculture greche dei tempi più nobili, e accanto alla purissima perfezione della forma recava un fascino così unico e personale, che parve al riguardante di non aver mai veduto né in arte né in natura nulla di così felicemente riuscito». Luchino Visconti cercò a lungo il suo Tadzio, il ragazzo adatto alla descrizione di Thomas Mann nel suo breve romanzo La morte a Venezia. Nella trasposizione cinematografica – realizzata con le scenografie di Ferdinando Scarfiotti, i costumi di Piero Tosi e la fotografia di Pasqualino De Santis – Gustav von Aschenbach, da scrittore diventato musicista, è affidato al superlativo Dirk Bogarde, già con Visconti per La caduta degli dei, che tiene fede a ogni sfumatura, anche le più ambigue e dolorose, del personaggio.

Trovare il ragazzo fu difficile, il regista lo raccontò in un documentario, Alla ricerca di Tadzio. Peregrinazioni tra Polonia, Norvegia, Finlandia fino alla Svezia, a Stoccolma, nella primavera del 1970. Eccolo. Björn Andrésen, allora quindicenne. È il quinto della giornata, Visconti lo riconosce subito. «Bellezza perfetta» uscita dalle pagine di Mann. È il cuore pulsante del film, premiato a Cannes nel 1971, dopo l’uscita italiana il 5 marzo e una sontuosa première a Londra con la regina Elisabetta. Un uragano di popolarità e pressioni insostenibili per il giovane Björn, che nel giro di pochi anni uscì dai radar, salvo rimanere fissato nell’icona gay (ma non solo). Mezzo secolo dopo torna con un documentario, The Most Beautiful Boy in the World di Kristina Lindström e Kristian Petri, passato al Sundance e in programma alla 57ª Mostra internazionale del Nuovo cinema di Pesaro (19-26 giugno), che sarà distribuito in Italia da Wanted Cinema.
Girato nel corso di cinque anni ripercorrendo le tappe della vita di Björn Andrésen, certificato appunto da Visconti come «il più bel ragazzo del mondo», etichetta che il diretto interessato arrivò a odiare, tra Stoccolma, Copenaghen, Parigi, Budapest, Tokyo. E, certo, Venezia, dove tutto cominciò. Un cautionary tale su effetti e meccanismi della fama. Un ritratto complesso e doloroso di un giovane «timido e sensibile» catapultato all’improvviso sotto i riflettori che ha passato la vita a cercare l’invisibilità. Inciampando in vicende personali tragiche: alcolismo, la morte in culla del secondo figlio, il fantasma di una madre amatissima morta in circostanze misteriose, il peso di un padre mai conosciuto. Un mosaico costruito anche grazie a materiali straordinari, come audio e video di famiglia di Andrésen e reperti d’archivio. 
«Il film è la storia di Björn, non di Tadzio. Lui era del tutto impreparato ad affrontare le conseguenze di quella popolarità improvvisa – raccontano i registi a “la Lettura” —. Pensava sarebbe stata una vacanza, al Lido di Venezia, come un lavoretto estivo fuori dall’ordinario. Le riprese furono in effetti divertenti, per nulla traumatiche». Björn viveva con la nonna che l’accompagnò sul set e lo affidò a una baby sitter. «Il regista fu protettivo. Molti nelle troupe erano omosessuali, Visconti diede un ordine a tutti: nessuno metta gli occhi sul ragazzo. La follia iniziò dopo, già la sera della proiezione a Cannes. Tornò dai suoi amici pronto a rientrare nel gruppo ma qualcosa era successo: era una star, l’oggetto del desiderio».
Oggi Björn Andrésen è un signore di 65 anni, barba e capelli lunghissimi, che mantiene nello sguardo il candore che abbiamo conosciuto. Lavora come attore (lo abbiamo visto di recente nell’horror Midsommer di Ari Aster), si dedica alla sua passione, la musica, e non smette di fare i conti con la sua esistenza complicata. Si racconta a «la Lettura» con generosità e schiettezza, le stesse con cui ha lavorato per cinque anni con Lindström e Petri al film. «Il provino? Ci sono andato un po’ per caso. Avevo le prove con la mia band nel pomeriggio, pensavo fosse una cosa di pochi minuti, come i ragazzi entrati prima di me. Non potevo immaginare che mi avrebbe cambiato la vita, che mi sarei ritrovato in costume davanti a lui. Mi dissero di leggere il romanzo di Thomas Mann. Me ne ero quasi dimenticato quando ricevo una chiamata da Roma: la parte è tua». Le riprese, ricorda, andarono bene. Le indicazioni di recitazione di Visconti furono essenzialmente quattro. «Vai. Fermati. Girati. Sorridi».
I problemi iniziarono dopo. «Non ero preparato. Veramente non ero preparato neanche a trovarmi a una prima con la regina. Ma Cannes fu un uragano, l’inizio di un incubo». Fin dalla festa dopo la proiezione, in un locale dove, racconta, si sentiva addosso gli sguardi voraci di tanti sconosciuti. «Mi ubriacai, non ricordo neanche come tornai in hotel. Ci ho ripensato. Sapevo che Visconti era comunista, i comunisti si preoccupano dei più deboli e più piccoli. Io ero entrambe le cose. Mi interrogo sulla moralità di lasciare un sedicenne in balia di tutto quello. Con il senno di poi non credo fosse giusto». Cosa pensa di Visconti? «Darò una riposta diplomatica. È un grande artista, questo è fuori discussione. In realtà non posso dire di averlo conosciuto. Non era per nulla interessato a me come persona, ero l’oggetto del film. Ero Tadzio, nulla di più. Ma certo, grazie a lui sono qui a parlarne e quel film è come la dea Kali, forza creatrice e distruttrice. E Morte a Veneziaposso dire che ha insieme distrutto e creato la mia vita». Con effetti sorprendenti, come trovarsi a essere il modello per il protagonista di uno dei manga più popolari del mondo, Lady Oscar, lanciato nel 1972 dall’artista giapponese Riyoko Ikeda. 

Oggi, dice, vede tanti giovani ossessionati dalla voglia di diventare famosi. «Credo sia molto triste che soprattutto i giovani sentano questo bisogno per sentirsi vivi. Io domando: famoso per cosa? Per quello che sei? Per il tuo talento? Che so, costruire una sedia, scrivere una poesia, dipingere un’opera? No, solo per quello che appari. Quello che non sanno è che un giorno sei al top e il giorno dopo non sanno chi sei». Al Björn di 50 anni fa avrebbe da dire qualcosa. «Gli direi di non andare a Parigi (dove si trovò a vivere facendo l’accompagnatore, ndr), resta a Stoccolma vai al conservatorio, impara qualcosa e diventa bravo, come ripeteva il mio insegnante di piano. Lì tutto è cambiato, mi sono anche divertito, ma ho perso il controllo della vita». Il suo piano era diventare «un incrocio tra Beethoven e i Beatles. Ma ci sto ancora lavorando».