La Lettura, 6 giugno 2021
I due Steinbeck inediti
La critica americana non è mai stata tenera con John Steinbeck. Per il raffinato ed esigente Edmund Wilson, un’autorità nel campo letterario, Steinbeck (1902-1968) fallì nel tentativo di offrire una rappresentazione credibile degli esseri umani, riducendoli «al livello di animali». Fresco di Nobel nel 1962, Steinbeck venne preso a ceffoni sul «New York Times» da Arthur Mizener, che liquidò la sua opera come troppo sentimentale e nostalgica. Nel 2008, sulla «New York Review of Books», Robert Gottlieb ha definito la decisione della Library of America di ristampare il catalogo di Steinbeck un «errore». Steinbeck ha pagato innanzitutto le sue origini californiane, troppo lontane dall’establishment culturale e dai circoli intellettuali della East Coast: fu lo stesso Wilson a parlare della California come di «un anfiteatro all’aperto che manca non solo di acustica ma anche di un pubblico attento» (in questa affermazione emerge l’insofferenza della cultura «alta» per il cinema dell’epoca d’oro, un mondo dal quale Steinbeck era attratto).
Se in Europa Steinbeck gode di uno status simbolico – per André Gide non c’era «niente di più perfetto, niente di più riuscito, di alcune sue storie» – negli Stati Uniti fatica a togliersi di dosso freddezza e diffidenza. Ci è voluto un critico di origini europee, il britannico Gavin Jones, docente di Letteratura americana all’Università di Stanford, per provare a «riabilitarlo».
Nel suo saggio Reclaiming John Steinbeck (in libreria dal 10 giugno per Cambridge University Press), Jones, oltre a documentare la sorte critica che gli è toccata, definisce Steinbeck «uno degli scrittori più sperimentali del Novecento», un autore che ha messo al centro della sua opera temi ecologici, razziali, biologici, sociali e politici, che ha interrogato la crisi dell’umanità attraverso la scrittura. Durante la stesura del volume, diviso in 9 capitoli pensati come saggi brevi, Jones ha rintracciato due inediti di Steinbeck: il dattiloscritto Murder at Full Moon, conservato all’Harry Ransom Center della University of Texas di Austin, e il manoscritto Case History, custodito alla San Jose State University, in California.
Murder at Full Moon è un romanzo di 233 pagine, rifiutato dagli editori nel 1930. È ambientato in una cittadina fittizia della costa californiana e ha al centro una serie di omicidi durante le notti di luna piena. Per gli investigatori il colpevole sarebbe un lupo mannaro emerso dalle paludi. Scritta sotto lo pseudonimo di Peter Pym, l’opera contiene due illustrazioni realizzate dallo stesso Steinbeck.
Case History — spiega Gavin Jones a “la Lettura” – anticipa invece i temi al centro di Il vigilante, una delle storie de La lunga vallata (1938), nella quale viene raccontato il linciaggio di un uomo afroamericano.
Perché «rivendicare» Steinbeck?
«Steinbeck rimane tutt’oggi una curiosità critica. Come Beckett, ha puntato i riflettori sulla solitudine delle nostre esistenze. Negli Stati Uniti è stato spesso liquidato come uno scrittore borghese, sentimentale, non al livello di un modernista come Faulkner. Così è uscito dalla mappa della critica letteraria, ingiustamente. Steinbeck aveva già messo al centro della sua opera preoccupazioni contemporanee, questioni urgenti come il cambiamento climatico e il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. In questo senso è stato pionieristico. Ha indagato l’uomo come specie biologica: una specie a rischio di estinzione».
Così la critica lo mise in un angolo.
«Oltre a essere uno scrittore della costa occidentale, scontava il suo atteggiamento ambivalente verso la politica, in particolare verso la sinistra. Negli anni Trenta e per tutto il secolo la critica letteraria si è sempre schierata a sinistra. È vero che Steinbeck si occupò di questioni sociali e del mondo dei lavoratori, ma la sua era una visione più liberale, da sostenitore del New Deal. A questo, si può aggiungere il fatto che Steinbeck non rientrasse nel canone modernista: per intenderci, la sua non era una “narrativa dell’interiorità”, come quella di William Faulkner».
Nonostante questo, scrive che Steinbeck è stato il «più» sperimentale.
«Ha prodotto racconti, romanzi, sceneggiature, persino una guida per l’esercito americano; è stato coautore di un manuale di biologia marina, ha tradotto testi del ciclo arturiano, ha studiato e raccontato la rivoluzione messicana».
In che misura il tema ecologico e quello razziale trovano posto nella produzione di John Steinbeck?
«Steinbeck non aveva un’idea “binaria” della questione razziale, non divideva il mondo in bianchi e neri. Era interessato al multiculturalismo, ai movimenti migratori che hanno dato forma alla California. Il tema razziale non è necessariamente in primo piano nelle sue opere, l’aspetto ecologico è più facile da trovare, per esempio nel Diario di bordo dal mare di Cortez (1941), nel quale c’è un resoconto dettagliato di numerose specie marine. Il manoscritto inedito di Steinbeck che ho rintracciato durante le mie ricerche, Case History, prende spunto dal linciaggio di due uomini bianchi avvenuto a San Jose, nel 1933: nella versione finale andata in stampa, Il vigilante, la vittima è un solo uomo afroamericano».
Lei ha dato molto risalto anche al tema della sessualità in Steinbeck.
«Steinbeck non è mai stato troppo empatico nei confronti dei personaggi femminili, penso per esempio a Ma Joad in Furore (1939), che agisce in relazione a protagonisti maschili. Non si può certo dire che Steinbeck fosse uno scrittore femminista. È interessante notare il modo in cui ha narrato la sessualità maschile, per esempio il legame implicitamente omosessuale tra i due protagonisti di Uomini e topi(1937). Era già successo con Hemingway, che un po’ a torto abbiamo sempre considerato uno scrittore macho: in realtà i suoi personaggi maschili sono legati da connessioni omoerotiche».
Come vedeva l’umanità Steinbeck?
«Scrivere, per Steinbeck, aveva una funzione terapeutica, serviva a combattere le sue crisi esistenziali. Da questa sensibilità scaturì anche una visione dell’umanità. Era affascinato dai modi in cui gli esseri umani cambiano, sia nel bene che nel male; era interessato a come nascono e si sviluppano i gruppi sociali. Aveva una visione olistica della realtà, dove la parte agisce in funzione del tutto».
«Furore» è l’apice di questa visione?
«La famiglia Joad, al centro di Furore, è guidata da forze biologiche: sono umani-animali che vengono guidati in quanto gruppo tramite un’identità collettiva. È una tradizione americana che ha radici lontane. Pensiamo alla coscienza collettiva al centro del pensiero di Emerson. Il finale di Furore, quando Rose of Sharon allatta al seno un uomo affamato, è esemplare: quel momento suggerisce un bisogno etico di prendersi cura degli estranei, di sfuggire ai bisogni individuali per occuparsi dei bisognosi. In cima a tutto c’è un bene collettivo».
Steinbeck ha esplorato un altro tema delicato, quello della disabilità, in «Uomini e topi».
«Era interessato alle limitazioni umane. Più che come un romanzo, aveva pensato a Uomini e topi come a un’opera teatrale. Il risultato è una pièce in forma di romanzo. In quest’operazione “fallimentare” è contenuto anche il senso del testo: un romanzo limitato, che in origine doveva essere qualcos’altro, che ha per protagonista un personaggio limitato».
Come si è confrontato Steinbeck con il modernismo letterario?
«Leggeva Faulkner ed Hemingway, era attratto dal modernismo. I suoi primi manoscritti erano studi dell’interiorità umana, nei quali ricorreva alla tecnica faulkneriana delle prospettive multiple. Ha distrutto quei manoscritti e ha preso una strada diversa, favorendo una rappresentazione più realista, obiettiva, della realtà. Vicolo Cannery (1945) rimane una delle sue opere più moderniste».
Nelle ultime settimane ha chiesto agli eredi di Steinbeck di pubblicare un altro inedito dello scrittore, «Murder at Full Moon», una storia di licantropi rifiutata dagli editori nel 1930. Quali elementi di quel romanzo sarebbero ritornati nel resto della sua produzione?
«Ad oggi gli eredi non sono intenzionati a pubblicarlo. Secondo me è un peccato. È un romanzo ironico, commerciale, nel quale Steinbeck sviluppa una sua concezione della narrativa poliziesca. Per certi versi Steinbeck anticipa, forse addirittura inventa, il noir californiano, esploso in quegli anni. È significativo che sia una storia di lupi mannari: Steinbeck era affascinato dalla capacità degli esseri umani di trasformarsi, dal confine sottile che ci separa dagli animali».