La Lettura, 6 giugno 2021
Intervista ad Arturo Pérez-Reverte - su Sidi (Rizzoli)
Se El Cid Campeador avesse avuto la faccia di John Wayne e fosse stato diretto da John Ford, sarebbe stato anche lui una sorta di colonnello Kirby Yorke, alle prese con le incursioni degli Apache sulle sponde texane del «Rio Bravo». Un comandante quieto e rude, efficiente e scaltro, rispettato e temuto tanto dai suoi uomini quanto dagli avversari in battaglia.
Un uomo di frontiera, un fine tattico da combattimento, poco permeabile alla compassione, però graniticamente leale: non tanto a una bandiera, come nel caso dell’ufficiale della cavalleria nordamericana, quanto a una persona: il suo re, prima Sancho II di Castiglia e poi il rancoroso Alfonso VI.
El Cid, insomma, può essere definito un freelance medievale. Oggi si direbbe un libero professionista, molto libero e molto professionista. Oltre che abbastanza costoso. Affittava la sua spada a regnanti cristiani o mori, per i cattolici di Léon o per i musulmani di Saragozza, senza distinzioni razziali o religiose. Svolgeva coscienziosamente il suo lavoro, spinto da necessità un po’ più tangibili di un’idea o di una fede, per esempio l’oro e l’argento.
«Non un eroe solitario, ma un leader alla testa della sua masnada», riassume Arturo Pérez-Reverte, scrittore e accademico di Spagna, cui gli avventurieri di poche parole e ancor meno convenevoli, immancabilmente virili e talvolta prezzolati, affollano spesso l’immaginazione: dal leggendario Capitano Alatriste alla seducente spia franchista, Lorenzo Falcó, di cui si è appena conclusa la trilogia con l’ultimo capitolo, Sabotaggio, ambientato nella Parigi dell’anteguerra, tra artisti geniali, cospiratori ed esiliati spagnoli.
Rodrigo, o Ruy, Díaz de Vivar, a differenza dei primi due personaggi, è esistito davvero e occupa il podio dei miti nazionali, alla voce Reconquista. Gli storici hanno ricostruito a malapena il 20 o 25% della sua vita, il che ha lasciato mano libera per il restante 75% a generazioni di romanzieri, poeti, registi, fino a questo Sidi, «Signore» in arabo, che uno dei più popolari autori europei propone (per le edizioni Rizzoli e la traduzione di Bruno Arpaia) ai lettori italiani, attraverso Un racconto di frontiera, come annuncia il sottotitolo: assalti, agguati e inseguimenti al galoppo simili, ma distanti nel tempo e nello spazio, da quelli celebrati nell’epopea americana del Far West.
«Il nostro lontano Ovest — spiega Arturo Pérez-Reverte dalla sua casa di Madrid — era la valle del fiume Duero, che ha diviso a lungo i regni dei mori da quelli dei cristiani, sempre in guerra fra loro. Una frontiera secolare, una frontiera ambigua, perché il nemico di oggi poteva diventare l’amico di domani, e viceversa».
El Cid, paladino nazionale della Reconquista, in «Sidi» è agli esordi della carriera, esiliato da Alfonso VI che non gli perdona di averlo costretto a giurare la propria estraneità all’omiCidio del fratello, Sancho II. Perché?
«In Spagna si parla sempre del Cid trionfatore, potente. A me interessava sapere chi era Ruy Díaz de Vivar prima di diventare El Cid ed entrare nella leggenda, quando iniziava a guadagnarsi la vita. Mi interessava risolvere la questione della sua leadership: come era riuscito un hidalgo castigliano, un umile valvassore senza patrimonio e per di più caduto in disgrazia, a convincere un manipolo di quaranta uomini a seguirlo a occhi chiusi in guerra? È chiaro che li vincolava la lealtà, ma anche che non gli obbedivano per la sua autorità quanto per le sua capacità persuasive».
Più esattamente?
«Quando ero corrispondente di guerra ho visto uomini alzarsi a un segno di comando e correre incontro al fuoco nemico. Era una questione di disciplina e patriottismo, certo, ma la loro forza dipendeva anche dal cuore e dalla testa di chi li guidava. Dal suo carisma. Dal suo codice d’onore. Mi interessava applicare tutto ciò a un eroe nazionale spagnolo. Gli storici hanno analizzato il suo coraggio e la sua fedeltà al re che pure l’aveva cacciato dalla Castiglia. Nessuno si è soffermato sul rapporto che lo legava ai suoi uomini».
Magari li affratellava la spartizione del bottino: non erano mercenari, in fondo?
«E allora? Si guadagnavano da vivere. Vero, non combattevano per la patria né per la Reconquista. Ma la morale dell’XI secolo (El Cid visse tra il 1040 e il 1099) non è la stessa del XXI. Ed è un grosso errore guardare al passato con gli occhi di oggi. Non si possono giudicare le gesta di un condottiero, come l’italiano Bartolomeo Colleoni, con lo sguardo di una Ong. Essere mercenario, a quei tempi, era una maniera nobile di guadagnarsi innanzitutto il pane; e poi anche la gloria e nuovi possedimenti. Gli uomini uscivano di casa per difendere la terra, la casa, la famiglia e, quando possibile, per prendersi la ricchezza dei vicini».
«Preferisco un mercenario ben pagato a un volontario entusiasta», ha detto alla presentazione del suo libro a Madrid. Davvero?
«Certo. Ho conosciuto molti mercenari quando ero in Angola, in Bosnia, in Libano e su altri fronti di guerra. Posso testimoniare che chi si batte per denaro è molto più affidabile di chi lo fa per un ideale. I volontari possono andarsene e spesso se ne vanno, mentre i mercenari restano al loro posto, fedeli al compito per il quale sono remunerati. E poi, a ben guardare, anche noi siamo mercenari».
Noi chi?
«Noi giornalisti, per esempio. Non tutti lavoriamo per una testata perché ne condividiamo la linea politica o per patriottismo, ma perché siamo pagati. Entro certi limiti morali ed etici, chiaro».
Dunque ha scritto questo romanzo come un manuale di leadership per dirigenti: che differenza c’è fra un leader come El Cid e un leader del nostro tempo?
«Oggi si può costruire un leader artificialmente, attraverso le reti sociali. Con un buon controllo dei meccanismi della comunicazione, anche i disonesti e i truffatori possono vendere un’immagine convincente. Nell’XI secolo le proprie capacità e il proprio carisma andavano dimostrati in modo chiaro, fisico, immediato. Non si poteva barare. Era molto più facile riconoscere un leader autentico, specialmente al momento della sconfitta, perché è lì che si manifesta il carattere reale di chi è pronto a morire in battaglia».
È vero che la sua passione per El Cid è nata grazie a una bisnonna?
«Sì, è vero. Nella biblioteca della casa in cui sono cresciuto c’era un’edizione illustrata de La leggenda del Cid, scritta da José Zorrilla, grande poeta spagnolo. Era stata comprata nel 1882 dalla mia bisnonna, Adele Replinger Gal. Mi capitò in mano quando avevo 8 anni e mi impressionò molto: da allora mi accompagnano il pensiero delle avventure e dei costumi cavallereschi, l’immagine del guerriero medievale che consegue prestigio e bottino lungo una frontiera ostile e pericolosa».
Finché non ha pensato di scriverne una versione in stile western.
«Sono un appassionato cinefilo e John Ford per me è un dio. Avevo appena rivisto la sua trilogia sulla cavalleria del Nord Ovest e mi sono reso conto che la nostra frontiera dell’Ovest, quella segnata dal Duero, con i coloni che difendono il loro pezzo di terra, non era stata ancora raccontata. La Spagna è un Paese meticcio e la stessa, ricchissima cultura mediterranea ci rende persone di frontiera».
È un romanzo di uomini e armi, le presenze femminili scarseggiano, El Cid resta (almeno mentalmente) fedele alla moglie lontana, Jimena: lei come se la immagina?
«Triste. Annoiata, vestita di scuro, molto medievale. Sola con le figlie ad aspettarlo, Jimena non doveva essere una donna brillante. Io me la immagino malinconica, chiusa in un mondo grigio».
Però il regista americano Anthony Mann nel suo film «El Cid» del 1961 scelse Sophia Loren per interpretarla.
«Quel film è molto falso, ma Sophia Loren è davvero meravigliosa. Ricordo l’emozione quando la incontrai...».
Dove? Quando?
«Molti anni fa. Ero per un reportage a Napoli e alloggiavo all’Hotel Vesuvio. Rientrando l’ho vista nella hall, tutta vestita di rosso. Mi sono fermato davanti a lei imbambolato».
E lei?
«Mi ha sorriso. Ero un perfetto sconosciuto, ma mi ha visto lì, incantato, e mi ha sorriso. Sophia Loren è una donna con la D maiuscola».
El Cid, nel suo romanzo, soccombe (brevemente) più o meno così al fascino di Rashida, l’intraprendente sorella di Mutaman, il re moro di Saragozza.
«Un guerriero non può essere sempre casto. E, nella sua posizione, Rashida poteva permettersi di essere moderna. Oltre a essere molto bella, era vedova, e ciò le conferiva maggiore libertà».
Nel Medioevo?
«Sì, ora se pensiamo all’islam pensiamo all’imposizione del velo, ma non è sempre stato così. In Libano ho conosciuto una musulmana che, fumando una sigaretta in terrazza, mi spiegava come, poiché era vedova, non rappresentasse più una tentazione per gli uomini e fosse quindi molto più libera».
La Tizona, la spada del Cid, è esposta al museo di Burgos: una reliquia?
«Sì, ma non è autentica. Come il sangue di San Gennaro. C’è bisogno di leggenda. Perché disilludere un bambino che la crede vera? O una donna convinta che il sangue si sciolga per miracolo? Finché non diventa fanatismo, la superstizione non fa male a nessuno».