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 2021  giugno 06 Domenica calendario

Intervista allo scrittore Joe Abercrombie

Papà Tolkien? Bravo, bravissimo, il migliore di tutti, eterna fonte di saggezza. Anche se, saccheggiato o rimaneggiato dai tanti epigoni, ispira romanzi che rischiano di prendersi troppo sul serio: «Pomposi», li definisce senza timori reverenziali uno dei suoi eredi di maggiore successo, Joe Abercrombie.
Inglese, classe 1974, laureato in psicologia, lo scrittore si è imposto con la saga La prima legge e ha sfondato con la Trilogia del mare infranto . Per tornare poi alla serie originaria con un nuovo trittico, di cui Il problema della pace , ora uscito per Mondadori, è il secondo capitolo. Malgrado il titolo la storia si snoda in scenari molto dark e bellicosi, in cui l’Unione con a capo un giovane re viene minacciata da nemici interni ed esterni. Esempio perfetto di un genere che, a dispetto di ogni snobismo letterario, «produce sempre più opere per una fascia sempre più ampia di più lettori. E viene amato proprio grazie ai suoi cliché».
Joe, ogni volta riesce a maneggiare una gran quantità di personaggi, eventi, situazioni: come fa a uscirne vivo?
«Onestamente non utilizzo tecniche particolarmente incisive.
Non ho agende piene di note o simili. Per me programmare è piazzare i miei personaggi nelle giuste posizioni nello spazio e nel tempo. Ho delle mappe e delle linee temporali per fare andare dritta la narrazione, ma per la maggior parte è tutto nella mia testa. Rileggo anche i miei libri precedenti e di solito scrivo tutta una trilogia prima di pubblicarne il capitolo numero uno».
Il tutto condito sempre da dosi massicce di humour, ingrediente raro in questo tipo di libri.
«Un elemento che mi provocava frustrazione, leggendo il fantasy da ragazzo, era la tendenza, generata da Tolkien, di rendere tutto serioso, mitologico, pesante. Col rischio di risultare un po’ solenni, un po’ autocelebrativi, perfino un po’ pomposi. Per questo credo che l’umorismo sia un fattore davvero importante: ironicamente, ancora di più se ti muovi in un contesto duro, con elementi orrorifici. In ogni caso a me viene naturale, sia nei dialoghi che nei processi interiori dei personaggi.
Un’impronta che accentuo al momento di rivedere e rifinire le storie che scrivo».
Ma il rapporto con Tolkien è e resta profondo, no?
«Lui è stato certamente la mia più grossa fonte di ispirazione, così come per tutti gli autori fantasy degli ultimi cinquant’anni. Quando ero ragazzo leggevo Il Signore degli anelli ogni Natale, e quando nel 2001 uscì il primo film diretto da Peter Jackson la sua potenza visiva è stata una nuova sorgente a cui attingere».
L’altro scrittore che ha rilanciato alla grande il genere è George R.R. Martin, giusto?
«Sono stato un fan dei suoi libri negli anni Novanta, ci trovavo qualcosa che era andato perduto nel fantasy epico – il senso di imprevedibilità, l’oscurità, la sorprendente pluralità dei personaggi. Per questo è stato per me un modello, quando ho cominciato a scrivere. E poi devo ringraziarlo per aver creato nei lettori fame per i fantasy più dark, come i miei».
Anche la politica è una fonte di ispirazione? Spesso i suoi mondi raccontano, in controluce, il nostro presente…
«In parte sì, anche se non è mai nelle mie intenzioni mettere la politica al centro della scena. Non voglio fare prediche a nessuno.
L’elemento sociale si sviluppa naturalmente dalle storie e dai personaggi. Pur essendo ambientato in universi remoti, spesso ispirati al Medioevo o al Rinascimento, il fantasy è scritto da autori contemporanei per lettori di oggi, dunque non può che riflettere le preoccupazioni, le grandi questioni, le lezioni che ci riguardano tutti».
Ma più in generale quali sono le sfide che un autore fantasy si trova davanti?
«Le stesse di un qualsiasi narratore: i personaggi, i dialoghi, l’azione, la trama, anche se nel mio caso sono tutti inseriti in un contesto magico.
Credo che anche i dubbi sono gli stessi: "Questo libro è abbastanza buono o distruggerà la mia carriera?". Cose così».
Però è evidente che il genere vive una stagione di grande popolarità, anche grazie alle serie tv.
«Sì, c’è una grande proliferazione dovuta al boom dei canali in streaming: in effetti è un po’ un’età dell’oro per il fantasy, almeno per quello cinematografico e televisivo.
Certo, non durerà per sempre. Ma credo che le cose buone troveranno sempre un loro pubblico: c’è una grande voglia di belle storie là fuori».
In questo moltiplicarsi dell’offerta, come ci si difende dai cliché?
«Io non li evito affatto. Se esistono è per una ragione: perché lavorano a un livello profondo. Un grande western non necessariamente tenta di abolire gli elementi classici del genere – uno straniero che cavalca in una città, una sparatoria per le strade – anzi li abbraccia, trovando in loro nuovi significati. È quello che io provo a fare con il fantasy: ingredienti familiari cucinati però in modi diversi».
Lo stesso discorso vale per i videogame, di cui è grande appassionato.
«Ci gioco da quando ero un ragazzino, è una delle cose che mi divertono di più, e questo in qualche modo si percepisce nei romanzi che scrivo. Anche se nei periodi in cui gioco di più faccio meno progressi con i libri».
E invece la pandemia come ha cambiato e cambierà le sue storie?
«Il mio stile di lavoro non è mutato durante i lockdown, visto che sono sempre seduto a una scrivania. Ma le conseguenze a livello emotivo ovviamente le sento. I miei ultimi libri sono stati influenzati da eventi esterni come la Brexit: credo che in quelli che scriverò da ora in poi la pandemia troverà il modo di fare capolino».