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 2021  giugno 06 Domenica calendario

Napoli è allo stremo ma la campagna elettorale si apre sulla Juve

Scampia, a ridosso di un pezzo di verde che era una discarica e che un gruppo di ragazzi ha trasformato in giardino piantando rose, un uomo domanda: «Chi siete?». Ci sono il segretario locale del Pd Marco Sarracino, il vicesegretario nazionale Peppe Provenzano e un comitato di disoccupati che chiede lavoro, semplicemente lavoro: «Perché se io lo trovo posso fittarmi una casa e non vivere più nelle Vele, capite?». «Siamo il Pd», risponde Paolo Mancuso, ex procuratore anticamorra, ex capo del Dap, presidente dei dem in città. «E chi tenete? – tutti sanno, a Napoli, che presto si vota – o’ juventino?». Gaetano Manfredi, ex ministro dell’Università, ex rettore della Federico II, ideatore di un progetto tanto avveniristico quanto riuscito come il polo di San Giovanni a Teduccio in cui sorge, tra l’altro, la Apple Academy, non ha ancora cominciato la sua corsa che qualcuno gli sta già affibbiando un’etichetta dannosa. Juventino a Napoli è quasi una bestemmia. Juventino dove Maradona è un culto, dove un gigantesco murales poco distante da quel giardino ricorda il volto di Ciro Esposito, il giovane tifoso del Napoli ucciso da un ultrà di estrema destra a Roma, è una di quelle cose che può far partire male una campagna elettorale accuratamente preparata. Che unisce, e non era semplice, il Pd, i 5 stelle e Articolo 1. «Deve aver avuto un’infanzia difficile», scherza – dimenticando il fair play – l’avversario più temibile di Manfredi, Catello Maresca, candidato sindaco appoggiato dal centrodestra, quindi da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, ma affezionato a un profilo civico di magistrato anticamorra. Non può essere questa la partita, nemmeno in una città dove il calcio è quasi tutto. E infatti non lo è. Seduto al bar delle Terme di Agnano, in vista di una serie di appuntamenti elettorali, Gaetano Manfredi dice che alla fine, il motivo per cui ha deciso di candidarsi a sindaco, è uno: lottare contro lo spreco. «Napoli ha risorse inimmaginabili, si potrebbe creare tantissimo per ragazzi che – in mancanza di tutto – partono per non tornare. E invece vedo intorno disinteresse, mancanza di fiducia. Troppe persone pensano che di Napoli non ci si possa fidare. Quando abbiamo portato qui la Apple Academy sapevo che dovevamo lottare contro il pregiudizio e abbiamo vinto. Volevo che l’università non fosse staccata, ma aperta alla città. Quando i bambini del quartiere sono entrati nelle nostre aule avevano le lacrime agli occhi. Chiedevano: “Ma io davvero posso venire qua?”. La bellezza a Napoli non dev’essere solo al centro, dev’essere diffusa. Noi vinciamo se riusciamo a portarla nelle periferie, se riusciamo a riportarci la speranza» Nello stesso quartiere difficile della periferia est, Anna Riccardi è l’anima della fondazione Famiglia di Maria. «La pandemia ha messo in luce tante cose che molti non volevano vedere – racconta – abbiamo toccato con mano le fragilità di Napoli, ma abbiamo anche trovato una grande forza nella solidarietà». Lei non ha mai chiuso. Lavora con il doposcuola, con l’educazione alla legalità, all’ecologia. «Abbiamo messo 40 pannelli fotovoltaici sui tetti di San Giovanni a Teduccio, a giugno partiremo con i percorsi ambientali per i bambini e le famiglie». Che non sia semplice, non fatica a dirlo. «Io ho 120 bambini e quando mi hanno sparato sul portone ho avuto paura. Il giorno dopo però qui fuori c’erano le loro madri che mi hanno detto: “Noi siamo quello che siamo, ma stiamo con voi"». Il bene lo vedono tutti. Lo riconoscono tutti – pervicace, diffuso, mai pigro – anche in una città dove il male pretende di comandare.
Ai Quartieri Spagnoli, nell’intrico di vicoli in cui le macchine fanno fatica a girare, la fondazione Foqus sorge in un vecchio convento che è diventato asilo, scuola, centro culturale, con al primo piano la struttura per i giovani con disabilità – qui li chiamano “argonauti” – e una piccola biblioteca il cui riordino è affidato a un ragazzo del quartiere che si sta laureando. «L’ultima parte di stipendio glielo diamo dopo la tesi, perché non molli».
Il direttore Renato Quaglia e Rachele Furfaro, che a Napoli ha inventato le “scuole dalla parte dei bambini”, portano aiuto, cultura, formazione, lavoro, piccola imprenditoria. «Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone», dice Quaglia citando Calvino. Così, la forma di Napoli è disegnata dalle sacche di resistenza che, come queste, si trovano in ogni quartiere, instancabili e solitarie. Spesso tradite dalla politica.
«Bagnoli è fronte del porto», dice la scrittrice Valeria Parrella mentre cammina lungo il pontile nord che un tempo portava i materiali lavorati dell’ex fabbrica Italsider sulle navi. Uno stretto chilometro di legno che una ragazza percorre leggendo un libro, con di fronte Nisida, Capri, Ischia e più in là Capo Miseno, Pozzuoli.
«Qui la bonifica è diventata la scusa per non fare niente. I cittadini chiedono: muovetevi. La colata di materiali pericolosi è sigillata sotto terra, controlliamola, chiudiamola meglio, ma sbrighiamoci a riconvertire questo posto. A riqualificarlo, trasformarlo. Perché Bagnoli ha una storia, un bacino elettorale importante, una comunità coesa che è cresciuta nelle lotte per la salute e per il lavoro, ma è anche un simbolo. Nella storia di Napoli ricordo due incendi importanti, quello del palazzo di Giustizia e quello che qui ha devastato il museo della Scienza, dove andavano i bambini delle scuole, dove c’era il planetario. Sono segnali. Ed è contro questi segnali che bisogna resistere continuando a portare risposte e cultura».
Luigi de Magistris lascia a Napoli un fardello pesante. Un debito di un milione e mezzo di euro e un disavanzo dei conti di 2,6. La situazione dei rifiuti non è mai cambiata. «Capita che cammini in pieno centro – dice la scrittrice davanti all’ennesimo cumulo putrescente – e ti ritrovi un materasso ». Eppure le candidature per questa città sono tante e tutte di rilievo. Oltre a Manfredi e Maresca, c’è Alessandra Clemente, 34 anni, assessora con de Magistris. Sua madre, Silvia Ruotolo, fu uccisa per sbaglio dalla camorra mentre tornava a casa tenendo per mano il figlio di cinque anni. Alessandra ne aveva dieci, si affacciò al balcone e la vide riversa sul selciato, con la mano ancora intrecciata a quella del fratellino. Così è cresciuta trasformando il dolore in impegno. Non è una che molla e gli avversari non credono lo faccia, mentre pensano possa ritirarsi Sergio D’Angelo, uomo del terzo settore vicino alla sinistra.
Quanto ad Antonio Bassolino, che con orgoglio intende riprovare, anche nel suo caso chi spera in un ritiro non lo conosce. Già eletto nel 1993, poi nel ’97, e ancora ministro del Lavoro e presidente della Regione Campania per due volte, uscito indenne dalle inchieste sulla gestione dei rifiuti, Bassolino sostiene di essersi candidato perché a chiederglielo sono in tanti: a destra, a sinistra e in quel partito dell’astensione che chi se ne intende pensa possa determinare l’esito delle elezioni. «Serve un sindaco che sappia collaborare con le altre istituzioni, che non si appiccichi. E i napoletani sanno che questo è un lavoro che io so fare».
Nel suo quartier generale, a via Ponte di Tappia, Catello Maresca spiega che il suo impegno è nato con i libri, più ancora che in tribunale. Scrivendo di camorra per spiegarla prima di tutto ai suoi quattro figli, abituati da sempre a salire sulle auto blindate. Andando nelle scuole a fare progetti sulla legalità e poi nei quartieri.
Ad aprire la porta del suo comitato c’è un ragazzo alto e gentile, Raffaele. Che aveva precedenti per rapina, spaccio, è stato in carcere minorile a Nisida, ma grazie all’associazione Arti e mestieri era riuscito a realizzare il sogno di una pizzeria e ora ha dovuto chiudere per colpa del Covid. «Berlusconi mi ha chiamato a Natale, mi ha chiesto: ‘Sei sicuro?’. Gli ho detto sì, ci voglio provare e mi sono messo in aspettativa». Sa che fare le liste non sarà semplice, che i tentativi di infiltrazione ci saranno. «Chi viene con noi deve sapere che sarà non controllato, controllatissimo».
«Ma Maresca dice che vuole chiudere tutti i centri sociali, a prescindere da quello che fanno, se non hanno i permessi», dice Salvatore Martelli, del coordinamento territoriale Scampia. Durante il lockdown, si sono organizzati in modo autonomo con pacchi alimentari da portare alle famiglie in difficoltà. Non solo chi è rimasto dentro le Vele, ma anche molti di quelli che vivono intorno, patiscono una miseria che non vede sbocchi. La guerra di camorra è finita, le famiglie dei clan si sono allontanate, la piazzetta dello spaccio è stata riaperta, non ci sono più muri e vedette, non si vedono più “zombie per strada” come accadeva fino a qualche anno fa in via Ernesto Rossi, dove ora un gruppo di volontari sta lavorando per piantare un agrumeto dove un tempo c’erano solo siringhe.
«La povertà però rimane», racconta Marco Sarracino, che a Scampia è nato ed è fiero di aver portato il Pd locale ad avere da 9 a 112 iscritti. Così forse, se la risposta fosse solo chiudere, smantellare, rischierebbe anche “L’officina delle culture Gelsomina Verde”. Qui un gruppo di ragazzi ha preso una scuola abbandonata, che era diventata un deposito d’armi della camorra, e l’ha ripulita. Ci lavorano alcuni volontari e 11 detenuti. Hanno fatto un campetto di calcio per i bambini. Hanno preso una capra e un coniglio per dar vita a una piccola fattoria didattica. Dentro, c’è una panchina rossa simbolo delle vittime di femminicidio. Gelsomina Verde aveva 22 anni quando fu torturata, uccisa e poi bruciata a Scampia per una storia d’amore avuta con un ragazzino finito nel giro sbagliato. La storia è in Gomorra, ma anche qui. Impressa su un muro e nella memoria.